- Pensiero e testimonianza del P. Cornelio Fabro (1911-1995)
Anna Giannatiempo Quinzio - Un ricordo di P. Cornelio Fabro
Annie Cottrau - In Memoriam di Padre Cornelio Fabro
Danilo Castellano - Cornelio Fabro: Maestro ed Amico
Nello Dalle Vedove, C. S. S. - Padre Cornelio Fabro, Professore e Maestro, nel ricordo di un'allieva
Sr. Rosa Goglia - Maestro di libertà perché discepolo della verità
Sr. Rosa Goglia - Ricordo del p. Cornelio Fabro
Sr. Angela dell'Amore Crocifisso - La terra promessa della metafisica
Gabriella Maesano - Contatti con papi e cardinali
- Testimonianze di professori
- Testimonianze di religiosi
- Altre testimonianze
- Studi e voci di enciclopedie su Cornelio Fabro
La seguente testimonianza è stata pubblicata in Humanitas, 1995.
Pensiero e testimonianza del P. Cornelio Fabro (1911-1995)
Anna Giannatiempo Quinzio
«Lo scrittore porta il peso di più di un’eredità: la filosofia gli ha lasciato in testamento la sua pretesa di universalità; la religione la problematica della morte nella sua purezza» (Elias Canetti).
1. Un ricordo del P. Fabro: la filosofia come inquietudine
C’è nel ricordo, come sempre in ogni atto della vita dello spirito, una duplicità: c’è un ricordo che ha rapporto al tempo e c’è un ricordo che ha rapporto all’eterno. C’è un ricordare di fatti e cose che sono accaduti e di cui abbiamo avuto notizia o di cui siamo stati testimoni, ma che restano al di fuori di noi; e c’è un ricordare di fatti e cose che ci sono accaduti e che sono legati a volti e persone che ci furono care e vicine, e che restano per sempre impressi dentro di noi perché sono ormai parte irrinunciabile della nostra vita. Solo questa seconda forma di ricordo – che segna indelebilmente la nostra esistenza – attinge la profondità intensiva della memoria cordis, di quella memoria cioè che affonda le sue radici nella nostalgia e nel rimpianto, e insieme nella speranza di una «ripresa», come dice Kierkegaard, di una «restituzione reale» per l’eternità. In questo senso il ricordare ha uno stretto rapporto con la fede e con la morte: è l’ultima possibilità umana di non volersi arrendere alla morte, di non rassegnarsi alla sua definitiva vittoria, di consegnarsi alla speranza «folle» della fede.
Ricordare il Padre Cornelio Fabro, ora, dopo la sua morte, appartiene per me a quest’ultimo tipo di «ricordo essenziale». Significa infatti riattingere, nel ricordo di lui, gli anni più vivi e intensi della mia giovinezza, al tempo cioè in cui fui sua allieva a Roma e poi assistente alla cattedra di Filosofia teoretica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia. Una vicinanza che è durata quasi vent’anni e un ricordo, quindi, che mi coinvolge profondamente e che non riuscirei certamente a rendere neutro.
Tuttavia tentare di restituire la complessa figura del P. Fabro nei suoi vari volti – di uomo e di maestro, di filosofo e di sacerdote – non è semplice. Queste realtà in lui non furono mai separate, e fu proprio la loro indissolubile appartenenza e il suo costante impegno nel farle convergere in un unico volto, che accentuò lungo gli anni i conflitti della sua personalità e rese gli interrogativi del suo pensiero sempre più radicali.
Il mio primo ricordo del P. Fabro risale ad una ormai antica impressione – ma tuttora viva nel cuore – della sua prima lezione: era il 21 novembre del 1958. Sorridente, e insieme severo, iniziò la lezione ponendo la questione del senso stesso della «filosofia». Trascrivo qualcosa seguendo gli appunti di allora.
Rimettersi in uno stato di radicalità, dimenticare tutto quello che si era imparato per ritrovare l’origine, il primo scaturire del nostro spirito, il cominciamento essenziale nella ricerca della verità, questa era la «filosofia». Ricercare la verità era perciò per l’uomo un compito sempre aperto che implicava il suo appassionamento. Era riuscire ad avvertire il problema più che cercare una conclusione, perché ogni verità che l’uomo può raggiungere non è che un presentimento. La verità quindi non è una conquista ma piuttosto una insopprimibile esigenza, proprio perché la filosofia non è una disciplina obiettiva ma una reflexio regressiva, intensiva, verso il fundus animae: è cioè inquietudine, fermento, insoddisfazione delle cose immediate, desiderio di tornare al principio, di arrivare all’origine, alla scaturigine del sapere, a quel rapporto iniziale e originario della coscienza alla verità dell’essere che fonda la verità in atto di ogni altro sapere.
La filosofia è quindi andare oltre il limite delle cose finite per porsi la domanda fondamentale sul perché della propria origine e sul senso del proprio destino. È il tentativo ripetuto da secoli di «togliere il velo» che ci nasconde il vero volto delle cose e dell’io, è patire la sproporzione fra la nostra conoscenza e la realtà. Filosofia è perciò avvertire il dubbio filosofico, viverci dentro, perché se è vero che essa non ha risposte può però svelare all’uomo il senso del suo «niente», il «niente» di tutto, mostrare che ogni cosa è finita: ma è proprio dalla consapevolezza di questo «niente», di questo «infinito vuoto», che l’uomo scopre il suo «infinito bisogno» di verità e di salvezza.
Per questo – diceva – la filosofia deve essere misericordiosa, compassionevole, perché ha a che fare con la miseria dell’uomo. E citava la lettera di Fichte a Jacobi del 30 agosto 1795:
«Noi cominciammo a filosofare per orgoglio, e fummo portati così a perdere la nostra innocenza; abbiamo scoperto la nostra nudità e d’allora in poi filosofiamo per il bisogno della nostra salvezza»1.
La filosofia diventava così, nelle parole del P. Fabro, un pungolo, «un compito per affrontare il dilemma del senso della vita e della morte»2, una passione – massimamente interessata e disinteressata insieme – per la ricerca insaziabile nel tempo di quella verità che solo al di là del tempo e della morte ci sarà svelata nella sua sorprendente novità e inesauribile pienezza.
Questa era la filosofia per il P. Fabro. Perciò la sua lotta contro la riduzione operata dalla filosofia moderna – che esaurisce il senso della vita dell’uomo nell’angusto orizzonte della temporalità e nell’ambito della propria coscienza – sarà senza riserve. La pativa come una resa inarrestabile dell’uomo alla propria finitezza, un rassegnarsi, come scriveva Kierkegaard, a vivere in questo mondo come «un animale che Dio non chiama». Infatti perso – o rifiutato – il rapporto con il Principio originario del proprio essere nel mondo, l’uomo moderno ha smarrito insieme il sentiero della sua libertà e il senso del suo destino, come mostrano chiaramente gli esiti della filosofia contemporanea. Una filosofia che sta vivendo – molto spesso inconsapevolmente – il proprio tramonto e che percorre i «sentieri interrotti», come afferma Heidegger, della propria fine.
Recuperare al pensare umano questo rapporto originario con il Primum essenziale, prima fonte della vita, fondamento primigenio dell’essere, della libertà e del pensiero, e quindi del fine e del destino ultimo dell’uomo, fu per il P. Fabro la missione della sua vita prima ancora che il compito del suo essere filosofo. Per questo la sua filosofia resta indissolubilmente legata alla sua storia esistenziale, alla sua profonda umanità, alla sua scelta radicale della fede.
2. La riscoperta della «partecipazione» tomistica e il dramma della modernità
Il P. Cornelio Fabro era nato a Flumignano, in provincia di Udine, il 24 agosto 1911. La sua famiglia era povera – ma la povertà era allora retaggio comune in quelle terre. A 11 anni, nell’ottobre del 1922, lasciò il suo paese per entrare nella Congregazione dei Padri Stimmatini a Verona. Dopo tanti anni ricordava ancora con commozione quel giorno lontano:
«Ogni abbandono della casa è un po’ uno strappo, come un andare in esilio»3.
Rivide la sua famiglia e la sua terra soltanto nel 1935, in occasione della sua prima Messa. E tuttavia a quella terra – il Friuli – rimarrà sempre legato come allo «spazio etnico-spirituale» nel quale si era aperta la sua vita.
«È questa patria – ha scritto – che ci segue ovunque nella vita col tesoro antico dei primi affetti, col desiderio struggente delle prime gioie, con la malinconia del nostro volto ed animo infantile che sono passati e non tornano più»4.
Compiuti a Verona gli studi ginnasiali e liceali viene a Roma dove nel 1931 si laurea in filosofia presso l’Università Lateranense con una tesi su «La soggettività del principio di causa e la critica di D. Hume», e poi nel 1937 in teologia presso l’Università di S. Tommaso con una tesi sulla «Nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino», che resterà uno dei capisaldi del suo pensiero. Contemporaneamente studia biologia e psicologia frequentando le Università di Padova e Roma e nel 1935 è borsista presso la «Stazione Zoologica» di Napoli.
Subito dopo inizierà il lungo cammino del suo insegnamento, che svolse con impegno e passione sincera, fra Roma, Milano e Perugia. Per tutta la vita continuò con scrupolo a dedicare il suo tempo all’approfondimento e allo studio: aveva una capacità di concentrazione e di lavoro eccezionali, senza però perdere per questo in umanità per i bisogni di chi si rivolgeva a lui o di attenzione per le piccole cose della vita quotidiana. Forse proprio questa estrema tensione di spirito che richiedeva continuamente a se stesso, e non solo a chi gli era vicino, rese particolarmente sensibile, ma anche fragile – pur nell’apparente forza – il suo carattere: tanto sapeva essere dolce e benevolo quanto a volte insofferente; tanto sapeva aprire con tenerezza il suo cuore, quanto irrigidirsi in impenetrabili chiusure; tanto era disponibile all’accoglienza, quanto intransigente nell’accettare punti di vista diversi dai suoi. Era semplicissimo e complicato insieme. E di questo soffrì lui e fece soffrire. Ma questa complicazione credo che sorgesse in lui principalmente dalla difficoltà e dall’impegno di far convivere insieme i due mondi che, fin dalla giovinezza, occuparono totalmente il suo spirito: quello della fede e quello della filosofia. Quel che è certo è che non fu mai disposto né volle mai sacrificare la fede alla filosofia.
Fin dal suo primo fondamentale lavoro sulla Nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino5 il P. Fabro indicava nel recupero del «tomismo essenziale» una possibile forma di «filosofia cristiana». La nozione di «partecipazione» è al centro di questa riflessione: essa attinge, per S. Tommaso, una possibilità nuova e originale di pensare il rapporto Creatore-creatura al di là del semplice rapporto di causalità, un principio, quest’ultimo, già intuito dal pensiero greco. Infatti mentre la creazione, come pura «causalità», sottolinea la irriducibile separazione fra la creatura finita e l’assoluta trascendenza del suo Creatore, la nozione di «partecipazione» recupera una vicinanza, un’approssimazione di appartenenza e d’intimità:
«Il “partecipare” – scrive il P. Fabro – viene così ad esprimere, in un modo quale nessun altro termine filosofico può pretendere, il rapporto che ha l’ente finito all’essere infinito, la creatura al Creatore»6.
E definisce la partecipazione una «nozione così profondamente umana» che come «nessun’altra è tanto vicina alla nostra vita umile di ogni giorno»7.
È in virtù quindi non di un semplice atto di causalità estrinseca, ma del rapporto di appartenenza intrinseca propria della partecipazione all’interno dell’atto creativo, che l’uomo «attinge» in qualche modo (ad modum percipientis) – attraverso cioè l’emergenza fondativa dell’actus essendi sulla semplice existentia – l’essere e la vita stessa di Dio, sia nell’ordine dell’essere che in quello dell’operare, ed è, ad un tempo, elevato a imago Dei e reso capax Dei. Tutte le ricerche successive del P. Fabro avranno come loro costante punto di riferimento questa duplicità di fondazione e di apertura insieme: l’emergenza dell’essere come atto primario fondante e la libertà come nucleo originario costitutivo della soggettività.
Di qui nasce la sua critica alla Scolastica essenzialistica, ridotta a un vuoto razionalismo astratto e formale; di qui nasce l’interesse per il pensiero moderno e contemporaneo ch’egli conobbe profondamente e nel quale vide compiersi la «tragedia dell’uomo moderno». Secondo l’analisi che il P. Fabro ha portato avanti soprattutto nell’Introduzione all’ateismo moderno8, il principio d’immanenza, conseguente al cogito cartesiano, come «posizione» assoluta della coscienza rispetto all’essere, finisce anch’esso per concepire l’essere unicamente come «formale», un essere cioè sotteso soltanto dal «nulla» di coscienza nel quale finirà poi per dissolversi, precludendo così all’origine qualsiasi possibile aggancio alla trascendenza come origine e fondamento primario dell’essere e della libertà. Il pensiero moderno, cioè, «ha capovolto la prospettiva dell’essere operando il più audace e affascinante tentativo dello spirito umano, quello dell’autofondazione radicale del pensiero in se stesso»9.
Ma proprio questa autofondazione consegna inevitabilmente il conoscere e l’agire all’orizzonte della temporalità e della finitezza.
Si è contestato da più parti al P. Fabro questa consequenzialità di dedurre l’ateismo dalla logica intrinseca del principio moderno d’immanenza, facendo così diventare – gli è stato obiettato – atei molti che dichiaravano di non esserlo, a cominciare da Cartesio. Il P. Fabro rispose:
«È vero che il pensiero moderno è sorto con il proposito di difendere l’Assoluto, la libertà, la trascendenza: è un proposito che si riscontra con oscillazioni e cadute fino alla morte di Schelling (1854) cioè fino a un secolo fa: queste cose credo di averle imparate ormai anch’io...»10.
Ma un conto sono le intenzioni o le convinzioni personali dei filosofi, e altra la logica consequenziale dei princìpi nella vita del pensiero. Così ad esempio «è sintomatico che il pensiero moderno, nella sua linea più costruttiva che va da Spinoza a Kant fino all’idealismo metafisico trascendentale di Fichte, Schelling, Hegel e mettiamoci anche il padre del liberalismo teologico Schleiermacher, abbia accolto il dogma cristiano dell’Uomo-Dio. L’ha accolto però per dialettizzarlo, non per elevarsi alla trascendenza, ma per salvare l’immanenza: per mostrare l’unità del divino e dell’umano nell’autocoscienza dell’essere umano universale, della sintesi di tempo e di eternità nella storia dell’umanità che attua di tappa in tappa le forme di questa coscienza»11.
E non solo Feuerbach, o Kierkegaard, o Nietzsche confermano l’impossibilità di partire dal cogito per arrivare a Dio, ma sembrano dar ragione al P. Fabro anche autori che rappresentano oggi gli ultimi esiti dello sviluppo del pensiero moderno, come ad esempio Foucault, che presenta la ragione moderna come un imprigionamento della follia e indica proprio in Cartesio colui che ha tracciato il confine tra ragione e sragione, tra pensiero e non-pensiero, riconoscendo al cogito l’impossibilità di condurre «a un’affermazione d’essere»; oppure come Derrida che identifica nel dubbio cartesiano il tentativo di voler far camminare il pensiero sull’orlo di un abisso che rasenta la follia, una forma di «iperbole demoniaca»; oppure Levinas che definisce il cogito cartesiano «un movimento di discesa vertiginosa verso un abisso sempre più profondo»12.
3. Il senso del «negativo» nell’orizzonte cristiano e nell’esperienza moderna della libertà
Per il P. Fabro non vedere questo «abisso» nel quale ci conduce la modernità, a partire dal cogito, significa non aver preso sul serio il senso stravolto del «negativo» intrinseco al principio d’immanenza. La riduzione dell’essere alla coscienza comporta infatti con sé la dissoluzione del «nulla reale» a momento puramente apparente all’interno della dialettica della coscienza stessa, così che «il dolore e il negativo – come dice Horkheimer – restano astratti»13 (basti pensare all’«enorme potenza del negativo» che in Hegel viene dissolto come semplice momento della dialettica in vista dell’Aufhebung della ragione). È questo un punto fondamentale che rende incompatibile alla radice immanentismo e cristianesimo.
«Per l’immanentista, in fondo – scrive il P. Fabro –, il negativo e il male non ha realtà, ma è soltanto momento dialettico che “passa”, è mera parvenza che si “dissolve”»14.
Di qui il non senso della preghiera nell’orizzonte dell’immanenza, perché «dove non c’è il male, dove il male non è riconosciuto nella sua effettualità di corrosione dell’essere, [...] il chiedere a Dio la “liberazione dal male” – come fa la preghiera – è un atto irrazionale»15.
È questo l’abisso e la follia del principio d’immanenza: di essere un pensiero che non permette più all’uomo di pensare la propria finitezza e di patire lo scandalo del proprio nulla, di sentirsi cioè bisognoso di «salvezza», poiché egli «ha già risolto i molti fenomeni nell’unità di coscienza e vive dell’unità»16. Solo prendendo sul serio il principio d’immanenza e le sue conseguenze si può avvertire il dramma dell’uomo contemporaneo, il quale – privato della possibilità di “pensare il male”, privato della possibilità di «pensare» Dio, e quindi della possibilità di pregare – «sente» tuttavia «il vuoto e “vive” l’orrore del nulla»17.
Il principio d’immanenza, nei suoi esiti, ha finito così per capovolgersi: quel nulla che aveva tentato di esorcizzare e di rimuovere si è insediato al centro stesso della vita dell’uomo ed è diventato l’assoluto dominatore delle coscienze. Ma nello stesso tempo l’uomo si trova oggi abbandonato all’impossibilità di pensare questa sua nuova realtà. L’uomo non ha più categorie per pensare la propria impotenza. Perché – scrive il P. Fabro – l’impotenza della creatura può essere avvertita solo se c’è un Dio creatore, così come «soltanto in una concezione creazionistica il nulla è reale e perciò pensato fino in fondo»18. Infatti solo una riflessione filosofica che rende manifesto il nulla implicito di ogni finito, considerato non come semplice «parvenza» ma come realtà, può avvicinare l’uomo a quell’avvertenza, a quell’«esperienza del negativo cioè della sofferenza e del male nel mondo, nel suo senso forte»19.
Non c’è vero atto filosofico se al fondo di esso non c’è questa avvertenza del «negativo» in quanto tale, cioè se il filosofo non «si approfondisce nello scandagliare il nulla del finito, di ogni finito», e tanto più seria e profonda sarà quest’esperienza tanto più esigente diventerà la «sua richiesta dell’Uno». L’atto filosofico fondamentale si rivela e si attua infatti «in questa “trascendentalità” ossia nel riferimento essenziale che “dissolve” la dispersione dell’esistenza nell’essenza, dell’apparenza nel fondamento, e ne afferma insieme, come ha affermato stupendamente Aristotele, la “salvezza”»20.
Anche l’atto religioso, continua il P. Fabro, occupa parimenti l’intero centro dello spirito, ma sta «dall’altra parte». Anch’esso «scopre il nulla e insiste sul nulla, ma si tratta del nulla reale, di quello dinamico del divenire della libertà, ossia esistenziale: l’atto religioso infatti si rivela come il “luogo” della trascendenza»21, ossia dell’effettivo portarsi della volontà verso il «Dio creatore del mondo e Padre degli uomini»22, non tanto e soltanto come al «superamento dell’errore ma come aspirazione alla salvezza e alla liberazione dal male»23.
Questo significava riportare l’attenzione dal problema del conoscere a quello della libertà, che per tanti anni occuperà la ricerca filosofica del P. Fabro. E se egli accoglie del pensiero moderno l’istanza radicale di una libertà originaria, ne contesta però radicalmente, nell’orizzonte dell’immanenza, la sua intrinseca riduzione ad arbitrio. Il suo impegno filosofico sarà quello di ricondurre questa libertà radicale alla sua prima origine. E questo comportava non solo ripensare il problema del rapporto di fondazione fra creatura e Creatore, ma riportare l’attenzione su quel «negativo» che solo nella dialettica della ragione poteva essere così facilmente superato, ma non altrettanto nella realtà esistenziale dell’uomo, ch’è quella che fa capo alla libertà. Perché soltanto tenendo fermo Dio da una parte e il negativo dall’altra, la decisione e il rischio della libertà recuperano la dignità della responsabilità e la capacità della scelta.
Eliminare la distinzione fra vero e falso, fra bene e male, significava ridurre a indifferenza i termini dell’aut-aut e quindi rendere impossibile la scelta. Restituire al negativo la sua intrinseca «forza» significava riportare il negativo non più all’interno del cogito – cioè come momento astratto della dialettica risolutiva del pensiero – ma al centro dell’esperienza concreta della libertà. Se il negativo infatti non ha un corrispondente oggettivo nella sfera del pensiero, lo ha però nella sfera dell’esperienza esistenziale dell’uomo, il quale sperimenta non solo il negativo ch’è fuori di sé, ma il negativo ch’è al fondo stesso della sua soggettività e che non è soltanto l’esperienza del limite della sua finitezza ma anche l’avvertenza della sua libertà come infinita apertura di possibilità. L’abisso di questa possibilità irrealizzata genera l’infinito negativo dell’angoscia, mentre l’attuazione di questa possibilità porta alla realizzazione positiva della scelta e apre l’esistenza umana in una duplice direzione: del finito, come in tanta filosofia contemporanea, e dell’Infinito. Per il P. Fabro, come già per Kierkegaard, solo la scelta assoluta dell’Assoluto libera l’uomo a libertà e lo realizza nella sua infinita dignità di uomo come «singolo davanti a Dio». E proprio in questo cammino verso la fondazione ultima della libertà – fondazione non più metafisica ma esistenziale, attraverso cioè il porsi radicale in atto della stessa libertà – il P. Fabro riconobbe in Kierkegaard un maestro insuperato. Per Kierkegaard infatti non è per via di conoscenza che l’uomo può giungere a Dio ma per via di libertà, perché non è la ragione ma la libertà la dimensione più profonda e misteriosa della soggettività umana. Mai come oggi l’uomo è abbandonato al rischio della sua libertà. Mai come oggi la filosofia è assente da questo dramma.
4. Kierkegaard e l’irriducibile eterogeneità di ragione e fede, di filosofia e paradosso
E qui sarà ancora Kierkegaard a fare da guida. Il P. Fabro ha dedicato alla traduzione e allo studio di questo autore interi anni della sua vita e forse nessuno come lui sentì vicino per consonanza profonda di temi e di spirito. Ma soprattutto per la sua sincera testimonianza di fede, ed egli ha rivendicato fortemente la matrice religiosa e teologica come la chiave di lettura fondamentale di tutta l’opera kierkegaardiana. «Ragione» e «fede» sono infatti per Kierkegaard – come sottolinea il P. Fabro – «princìpi assolutamente eterogenei»24, così come sono inconciliabili «filosofia» e «paradosso»: porli in dialettica di continuità fra loro significa annullare la loro irriducibile specificità e non riconoscerli come gli estremi opposti dell’aut-aut radicale della scelta, cioè del «salto», ch’è il rischio supremo della libertà in vista della propria salvezza. Pretendere di spiegare la libertà – scrive il P. Fabro – «nella trasparenza dei motivi che sono in possesso della ragione» è «una dolorosa e dannosa illusione. La vera libertà è altrove»25. E richiama la definizione che Kierkegaard dà della fede: «Cos’è credere? È volere... in obbedienza riverente e assoluta difendersi contro i pensieri vani di voler comprendere e contro le vane immaginazioni di poter comprendere»26.
Fra le varie cose degli ultimi anni il P. Fabro aveva scritto: «Viviamo già in un’epoca di Apocalissi che né Kierkegaard né Nietzsche potevano sospettare, ma di cui avevano penetrato, diversamente, la radice nichilistica e l’imminenza storica»27.
E accanto a Kierkegaard e Nietzsche, «due profeti di catastrofe»28 come li chiama, egli rivolgeva la sua attenzione, soprattutto negli ultimi tempi, ad autori come Voltaire, Heine, Camus, cioè alle voci più sensibili al problema del male e che osavano porre, in nome della ragione, le domande più inquietanti ed estreme. Quando «la ragione – scrive il P. Fabro – ha visto cadere in mezzo secolo tutti i suoi idoli»29, si pone drammaticamente la domanda sul senso stesso della filosofia, cioè la necessità – come afferma Heine – di «scegliere fra la religione e la filosofia, fra il dogma rivelato della fede e l’ultima conseguenza del pensiero, fra il Dio assoluto della Bibbia e l’ateismo»30.
Vale a dire scegliere tra ragione e fede, fra filosofia e paradosso.
La verità della fede, infatti, la verità del paradosso, non si fonda sulle ragioni offerte dalla ragione, ma sulla Parola rivelata da Dio, sul Verbo di Dio fatto uomo e «entrato nel tempo» per «compromettersi – si può ben dire – con il destino dell’uomo»31. E sarà soprattutto negli scritti di carattere prevalentemente «teologico-spirituale» che il P. Fabro porterà agli estremi la tensione del rapporto fra ragione e fede.
Nella concezione biblica (ebraico-cristiana) infatti, egli scrive, «non è la “ragione” finita dell’uomo a determinare il senso dell’origine, del processo e dell’esito dell’avventura umana nel tempo, ma è la “rivelazione” di Dio stesso». E ancora: «Il senso fondamentale della storia è quindi contenuto, per il cristiano di ogni tempo, nella Rivelazione e non va mendicato dalla filosofia»32. Il cristianesimo infatti fa subire un «capovolgimento [...] a tutti i problemi dell’essere e dell’uomo», perché «l’intelligenza non vaneggi né sia sedotta dalla vana filosofia, non solo ellenistica ma anche moderna e contemporanea»33.
Il «testimone» della verità cristiana «sta pertanto agli antipodi sia del teoreta della verità formale, che sfuma nelle tautologie e nei temi vuoti delle sue fumisterie, come dal fanatico dell’azione»34, poiché la verità rivelata, «la verità da credere, trascende la ragione assolutamente e non in modo puramente contingente e provvisorio»35. Nella fede infatti è in gioco «la salvezza del proprio essere oltre il mondo e il tempo: una certezza la quale sfugge per definizione ad ogni esperienza e calcolo o verifica oggettiva»36.
Proprio perché la speranza della salvezza appartiene all’orizzonte della fede essa ha uno stretto rapporto con il problema del male. Infatti non c’è nessuna filosofia capace di dare conto – senza neutralizzarli – del male del mondo e della disperazione dell’uomo: solo la fede è in grado di prendere sul serio la disperazione dell’uomo perché è in grado di farsi carico, senza eluderlo, del problema del male del mondo in tutto il suo scandalo. Scrive il P. Fabro: «Dolore, sofferenza, ignoranza, perversione, vizio, disperazione, insuccessi, incomprensioni, fallimenti... e morte formano l’orizzonte di quel che l’umanità ha chiamato, e anzitutto sperimentato, come “il problema del male”. È un problema che di solito resta alla tangente, almeno nella tradizione filosofica occidentale»37.
In uno dei suoi ultimi scritti fa propria la protesta e la rivolta di Camus e vede in questa ribellione l’unica possibile «risposta» della filosofia «al mondo assurdo, all’assurdo del mondo e al mondo dell’assurdo»38. E sarà proprio il problema dello scandalo del male, in tutta la sua drammaticità, «l’esistenza terribile, agghiacciante e quasi disperata del male»39, quello che più occupò le ultime sofferte riflessioni del P. Fabro. Il problema del male infatti coinvolge inestricabilmente la libertà onnipotente di Dio e quella finita dell’uomo, la giustizia di Dio e il peccato dell’uomo, la misericordia di Dio e il dolore dell’uomo..., tanto da costituire – come spesso ripeteva il P. Fabro – l’unica vera obiezione all’esistenza di Dio: «Oggi, per le coscienze del mondo contemporaneo, occorre una fede di una forza speciale cioè una grazia singolare per accettare come “permessa” da un Dio buono (che lo poteva impedire...) una simile situazione così carica in crescendo di orrori e di errori. Questa situazione può porre in crisi anche anime credenti e benintenzionate e portarle all’orlo della disperazione e fino al suicidio»40. Quel che è certo è che «al problema del male, sul piano esistenziale, nessuna filosofia è stata in grado di rispondere»41 e «le soluzioni dialettiche del pensiero moderno sono semplicemente disperate e insieme indifferenti»42.
Infatti la «filosofia pura non conosce altre soluzioni che quelle di tipo universalistico»43: ma la filosofia che di fronte al problema del male «ancora si appellasse alla legge del Tutto, all’ordine cosmico e universale e simili, diventa insensibilità morale e professione aperta di crudeltà»44. È quello che Camus giustamente chiamava il «pensiero soddisfatto»45. E se contro questo pensiero, scrive il P. Fabro, si deve riconoscere all’esistenzialismo contemporaneo e al marxismo, «se si vuole in senso obliquo, di aver avvertito, anzi di non aver eluso, il problema del male»46, tuttavia è vero che poi falliscono anch’essi miseramente in pseudo-soluzioni che finiscono a loro volta per «sanzionare il dominio del male»47.
L’unico tentativo di risposta al problema del male «è possibile solo con e nella fede e più che parlare di risolvere è meglio ricorrere, come espressione di avvicinamento», alle parole della Imitazione di Cristo di «... chiarire, illuminare, prospettare» per mettersi – come dice il Vangelo ed insiste Kierkegaard con tutta la tradizione cristiana – «ad operare con la fede, a resistere con la speranza ed a patire con l’amore». Il problema del male, continua il P. Fabro, «non ammette quindi alcuna soluzione puramente filosofica: le soluzioni che ne hanno dato i vari sistemi, ottimisti e pessimisti che siano, sono semplici invenzioni di un deus ex machina che non significano nulla per l’uomo esistente, anzi l’offendono»48.
Così come l’offendono «le soluzioni di una “teodicea” troppo a buon prezzo»49. E torna ad insistere che «l’esistenza del male è l’unica obiezione consistente, sul piano esistenziale della libertà, per l’affermazione dell’esistenza di Dio». E conclude: «Solo nella prospettiva della fede cristiana il male riceve un senso ed una soluzione positiva di salvezza per l’uomo e per ogni uomo»50.
Al problema del male, del dolore, della morte non c’è che una risposta: quella della fede. Ma «la stessa teologia – precisa il P. Fabro – se non vuole accontentarsi di sotterfugi dialettici, che forse possono irritare ancora più la suscettibilità dell’uomo d’oggi, deve fare appello ad una fede robusta e ad un dono di particolare grazia che nella teologia mistica si chiama “l’abbandono in Dio” [...] Tale abbandono è la forma più alta della fede dell’uomo nel suo rapporto a Dio»51, come insegna il Nuovo Testamento e ripete Kierkegaard: «Colui che non si mette in rapporto nel modo dell’abbandono assoluto, non si mette in rapporto a Dio»52. È su questa fede infatti che si fonda la speranza e l’attesa del compiersi della giustizia e della consolazione annunciata nell’Apocalisse, quando «l’unico Salvatore» sarà «il giudice di ogni singolo e dell’intero corso della storia»53. Ma a questo punto la filosofia non può che tacere, non c’è più posto per la «consolazione della filosofia»54, ma solo – come dirà ancora Kierkegaard – per la «ferita»55 aperta della fede.
5. Dio e il mistero del male: il dolore innocente e l’umanità sofferente di Cristo
A questo punto il discorso del P. Fabro si fa più essenziale: egli abbandona definitivamente ogni categoria filosofica con la sua pretesa di decifrare l’«enigma del male»56 e si sprofonda nell’esperienza reale del dolore universale, della sofferenza esistenziale dell’uomo (e non soltanto dell’uomo).
Qui non è più il filosofo che parla, ma è l’uomo, il cristiano, il sacerdote, che cerca disperatamente di difendere la fede senza tuttavia nascondersi gli interrogativi più estremi e crocifiggenti che l’infinito dolore presente nel mondo pone all’uomo che crede. Un’esperienza patita in prima persona soprattutto negli ultimi anni della sua lunga sofferenza. Il P. Fabro conobbe il dolore, e non solo il dolore fisico dei molti malanni della sua infanzia, o quello della paura e della fame delle due guerre, o quello dell’ultima malattia che sempre più lo segregò nell’isolamento e in una totale spoliazione, ma conobbe anche la delusione, l’amarezza, le «tribolazioni dell’anima», quando «nella vita si fa buio e vengono a mancare gli appoggi della finitezza»57.
Da questa sua esperienza vissuta del dolore si apriva con tenerezza al dolore degli altri, dei bambini soprattutto: davanti alle sofferenze dei bambini non sapeva trattenere le lacrime. Così come si commoveva dinanzi alle sofferenze di Cristo che furono, lo posso dire, sempre al centro della sua pietà e della sua devozione. «L’essere amati da Dio e amare Dio è soffrire»58: questa massima di Kierkegaard la fece sua fino alla fine della sua vita. Essere contemporanei con Cristo significa essere con lui nella sofferenza.
Ma la sofferenza non è solo del cristiano: essa abbraccia tutta la vita dell’uomo, di ogni uomo: «Questa vita – scrisse – si articola come dialettica di libertà e sofferenza»59. Tale infatti è «la realtà dell’esistenza che ognuno di noi ha già forse trascorsa o sta percorrendo: rispetto a quanto l’uomo si aspetta dalla vita, l’esistenza gli offre un bilancio nettamente negativo», poiché «la valanga del male non conosce sbarramenti»60.
E tuttavia «solo chi soffre percepisce la realtà del tempo..., l’orrore e il terrore del tempo»61.
Eppure, si chiede il P. Fabro, se Dio vide ch’era «buono» in ogni sua parte il mondo che lui aveva creato, «perché poi di fatto la storia dell’umanità in generale e del singolo in particolare, anzi si potrebbe dire dell’intera natura fisica e animale – con le sue catastrofi, terremoti, alluvioni [...], e per la storia dell’uomo con le malattie, guerre e morti – per ogni età ed ogni luogo – è diventata sempre lo “spazio” ingordo di sofferenze e dolori di ogni genere?»62.
Secondo la Bibbia «la ribellione della natura all’uomo e la malizia dell’uomo contro l’uomo a cominciare dal fratricidio di Abele, sono la diretta conseguenza della ribellione originaria dell’uomo a Dio».
E non v’è dubbio, continua il P. Fabro, che «questo primum negativo domini la storia sacra sia dell’Antico come del Nuovo Testamento»63.
Ma questo primum resta comunque un mistero. Infatti se va messa certamente in primo piano la libertà dell’uomo, tuttavia con S. Tommaso il P. Fabro riconosce «realisticamente anche la mancanza dell’aiuto divino e quindi l’inevitabilità della caduta senza che Dio possa essere chiamato in causa né direttamente né indirettamente»64. Ma non solo. La constatazione più amara è che anche dopo la redenzione operata da Cristo il mondo resta sotto il potere del male: «Noi dobbiamo constatare che anche post Christum natum, il male, sia fisico che morale, continua nel mondo ed anzi, specialmente in certe epoche – vissute anche di recente ed in parte le viviamo ancora – che il male prevale sul bene, la perfidia sulla bontà, il torto sul diritto, la violenza sulla giustizia... Lo spettacolo del male fisico e morale, le forze che con il progresso stesso aumentano rischiano di causare nuovi mali e nuovi dolori possono sconvolgere anche le coscienze più oneste e forti – e forse soprattutto queste!»65.
Ma la sofferenza che ha sconvolto le coscienze più sensibili della modernità, da Dostoevskij a Camus, è la sofferenza dei bambini. E primi fra tutti il P. Fabro mette i «santi innocenti» sgozzati fra le braccia delle loro madri. E si chiede con Crisostomo: dov’è la giustizia di Dio? Come si può salvare «una siffatta giustizia quando, mentre Dio fa porre in salvo Cristo, lascia i teneri bambini in balia della crudeltà di Erode?»66.
Perché mai Dio «ha permesso una siffatta crudele ingiustizia?»67. La tragedia dei piccoli innocenti resta quindi in tutto il suo strazio: l’unica risposta è quella misteriosa della fede che come «Dio ha permesso che il suo stesso Figlio morisse in Croce non solo per la malizia degli uomini ma abbandonato anche dal Padre», così secondo il «mistero nascosto in Dio [...], tocca ai giusti e agli innocenti espiare le colpe dei peccatori»68.
Un mistero incomprensibile non solo per la nostra ragione ma anche per la nostra fede. Infatti ci rimane nascosto il terribile mistero del martirio di questi bambini che non ha cessato mai di compiersi nella storia, e il P. Fabro guarda con occhi di profonda pietà il perpetuarsi di questo «mistero dei santi innocenti che continua»69 anche ai nostri giorni. E «per i bambini abbandonati, per i bambini negati, per i bambini rifiutati, per i bambini martoriati, per i bambini offesi, per i bambini dolenti, per i bambini non amati, per i bambini malati, per i bambini morenti»70 invoca «il giorno dell’Apocalisse finale»71, quando il Signore farà finalmente giustizia del loro sangue e della loro sofferenza. Perché sullo sfondo della nostra storia sta inquietante «l’interrogativo ultimo di Cristo, la testimonianza essenziale del Contestatore per essenza: “Verumtamen Filius hominis veniens, putas, inveniet fidem in terra?” (Lc 18,8)»72.
Cristo tornerà infatti alla fine della storia e il suo ritorno sarà il «giudizio» sulla storia del mondo: «Dal pianto di Eva [...] davanti al corpo sanguinante di Abele ucciso dal fratello fino all’ultimo dramma della storia il quale, se è riservato all’Anticristo (come afferma l’Apocalisse di Giovanni), sarà un bilancio che assommerà tutù gli orrori e le perversioni possibili. Poi, ma soltanto dopo tale cataclisma, verrà la vittoria definiva di Dio»73.
Il cristianesimo è infatti «religione essenzialmente escatologica, la quale – attraverso la prova del tempo – incammina l’uomo verso l’eternità: esso non si appoggia tanto ai 1900 o quasi 2000 anni di storia, ma si qualifica come “certezza” dell’evento salvifico nella fede nella prima venuta di Cristo che è entrato nel tempo e come “attesa” del secondo avvento di Cristo con la speranza per l’uomo che entra nell’eternità»74.
Ed è alla luce di questa istanza definitiva della fede che il P. Fabro dedicò gli ultimi anni e le ultime forze della sua vita alla riflessione sul mistero conturbante delle sofferenze attuali del Cristo nella sua umanità, del Cristo cioè che è ancora in attesa della sua definitiva vittoria sul male, sul peccato, sul dolore, sulla morte.
Si può parlare infatti, scrive il P. Fabro, di una «contemporaneità doppia»75. La prima è la contemporaneità dell’uomo con Cristo come «conformità al Christus patiens»76, come partecipazione alla Croce di Cristo: «È qui sulla Croce, crocifiggendo la sua ragione, che ogni cristiano deve seguirlo»77, accettando «le tribolazioni del corpo e le angustie dell’anima» come «partecipazione» e «abbandono d’amore» alla Croce.
«La via crucis, la via della Croce, è sempre stata, nell’economia della vita cristiana, ch’è anelito di santità, la via dell’amore: il passaggio obbligato, colmo di oscurità e di orrore, per la purificazione finale dell’anima ch’è prima la notte dei sensi e poi quella dello spirito»78.
La seconda contemporaneità è quella di Cristo con la storia dell’uomo come «contemporaneità di solidarietà e di misericordia»79 per i peccati, il dolore, il male del mondo. Con l’Incarnazione infatti il Verbo eterno di Dio ha contratto in Cristo una particolare «situazione di appartenenza al tempo»80: ma questa presenza operante di Cristo usque ad consummationem saeculi – si chiede il P. Fabro – va considerata semplicemente come già «avvenuta»?81. Oppure – come già diceva Pascal – «Gesù soffre sempre, soffre ancora, soffre ora [...] per i peccati degli uomini; quindi soffre e soffrirà [...] fino alla fine del mondo»?82.
E non esita a rispondere: Gesù, l’Uomo-Dio, nella gloria continua a soffrire «nella sua natura umana»83, una sofferenza «nuova e reale» che si concluderà «alla fine dell’eone storico con l’ultimo Giudizio»84. L’umanità di Cristo cioè, anche se glorificata, si mantiene tuttavia «ancora partecipe di tutta la tensione esistenziale della storia umana della salvezza»85. E conclude: «Gesù è sofferente per e con noi fino alla fine del mondo quando il Figlio dell’uomo farà il giudizio della storia e il “principe di questo mondo” sarà cacciato fuori, quando “Babilonia la grande” sarà abbattuta per sempre e scenderà dal cielo la “nuova Gerusalemme”»86.
Ma non è nella teologia, bensì nelle rivelazioni dei mistici che noi possiamo in qualche modo intravedere il mistero della «sofferenza reale» di Cristo, della sua «attuale sofferenza», una sofferenza che egli continua a manifestare agli uomini «perché lo compatiscano cioè l’amino al punto che patiscano “come” lui e patiscano con lui»87.
Con questi pensieri il P. Fabro ha vissuto la sua morte, avvenuta a Roma il 4 maggio. Il 20 aprile aveva celebrato il 60° anniversario del suo sacerdozio.
E con questi pensieri voglio concludere anch’io il mio ricordo di lui: un ricordo che non si cancellerà, ma che vive soprattutto di speranza, d’invocazione e di attesa di ritrovarci un giorno ancora insieme, alla presenza del Signore, nel Sabato senza fine.
Roma, 4 giugno 1995, trigesimo della morte.
1 J.G. Fichte, Briefwechsel 1793-1795, S.W., hrsg. Lauth-Jacob, III, Bd. 2, Stuttgart 1970, pp. 392 s.
2 C. Fabro, Premessa a Riflessioni sulla libertà, Maggioli, Rimini 1983, p. VIII.
3 C. Fabro, La donna e la casa, in Momenti dello spirito, Ed. Sala Francescana di Cultura «P.A. Giorgi», Assisi 1981, vol. I, p. 78.
4 C. Fabro, Nostalgia della patria, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. I, p. 90.
5 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, SEI, Torino 1963 (3a ed.). Seguito poi da Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, SEI, Torino 1960. Vanno anche ricordati i due volumi Esegesi tomistica e Tomismo e pensiero moderno, ambedue editi dalla Pontificia Università Lateranense, Roma 1969.
6 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, ed. cit., p. 359.
7 Ivi, p. 362.
8 C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, Studium, Roma 1969 (2a ed.), 2 voll.
9 C. Fabro, Op. cit., vol. II, p. 1091.
10 Ivi, vol. II, p. 1096.
11 C. Fabro, Il sepolcro vuoto, in Momenti dello spirito, ed. cit., Assisi 1983, vol. II, p, 197.
12 Cfr. M. Foucault, Storia della follia, tr. it di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano 1963, pp. 77-80; Id., Le parole e le cose, tr. it. di E. Panattescu, Rizzoli, Milano 1988, pp. 348 ss. J. Derrida, Cogito e storia della follia, in La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1990, pp. 39-79. E. Levinas, Totalità e infinito, tr. it di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980, p. 92.
13 M. Horkheimer, Taccuini 1950-1960, tr, it. a cura di L. Ceppa, Marietti, Genova 1988, nr. 216, p. 112.
14 C. Fabro, La preghiera nel pensiero moderno, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1979, pp. 13 s.
15 Ivi, p. 14.
16 Ivi, p. 13.
17 Ivi, p. 3.
18 Ivi, p. 15.
19 Ivi, p. 11.
20 Ivi, p. 12. Per il testo di Aristotele si rimanda a: De anima, II, 5, 417 b 3. Cfr. al riguardo: C. Fabro, Percezione e pensiero, Morcelliana, Brescia 1962 (2a ed.), spec. pp. 48 ss.
21 C. Fabro, La preghiera nel pensiero moderno, ed. cit., p. 12.
22 Ivi, p. 11.
23 Ivi, p. 12.
24 C. Fabro, Ragione e fede in Rasmus Nielsen, in AA.VV., Nuovi Studi Kierkegaardiani, Centro italiano di studi kierkegaardiani, Potenza 1993, 1, p. 11.
25 C. Fabro, Evangelizzazione: peccato e conversione, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 249.
26 S. Kierkegaard, Diario 1849, X1 A 368, tr. it. a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1980-1983 (3a ed.), nr. 2285, t. 5, p. 235. È appena uscita una nuova edizione delle Opere di S. Kierkegaard, a cura di C. Fabro, in 3 voll., Piemme, Casale Monferrato, 1995.
27 C. Fabro, Presentazione a AA.VV., Nuovi studi kierkegaardiani, ed. cit. Potenza 1989, 1, p. 8.
28 Ibid., p. 7.
29 C. Fabro, Dio e il mistero del male, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 345.
30 H. Heine, Nachwort rum Romanzero, Werke, Insel Verlag, Leipzig 1910-1920, Bd. III, p. 203, cit. in C. Fabro, Ateismo e deviazione della libertà, in Riflessioni sulla libertà, ed. cit., p. 285.
31 C. Fabro, Sull’essenza della testimonianza cristiana, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 285.
32 C. Fabro, La Chiesa «mysterium unionis», in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, pp. 350 e 351 nota 1.
33 C. Fabro, Meditazione sulla Chiesa, in Momenti dello spirito, ed. cit., p. 285.
34 C. Fabro, Sull’essenza della testimonianza cristiana, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 302.
35 C. Fabro, La rivelazione cristiana, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 311.
36 Ivi, p. 310.
37 C. Fabro, Problema e mistero del male, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 203.
38 C. Fabro, Dio e il mistero del male, in Riflessioni sulla libertà, ed. cit., p. 340.
39 Ivi, p. 334.
40 Ivi, pp. 323 s.
41 Ivi, p. 324.
42 Ivi, p. 334.
43 Ivi, p. 319.
44 C. Fabro, Problema e mistero del male, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 207.
45 A. Camus, Il mito di Sisifo, tr. it. di A. Borelli, in Opere, a cura di R. Grenier, Bompiani, Milano 1988, p. 309.
46 C. Fabro, Dio e il mistero del male, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 343.
47 Ivi, p. 336.
48 Ivi, p. 343 s.
49 C. Fabro, Ch. Péguy: il mistero dei santi innocenti, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 218.
50 C. Fabro, Dio e il mistero del male, in Riflessioni sulla libertà, ed. cit., p. 344.
51 Ivi, p. 324.
52 S. Kierkegaard, Diario 1850, X2 A 644, tr. cit., nr. 2936, t. 7, p. 173.
53 C. Fabro, La dialettica qualitativa in Kierkegaard, in Riflessioni sulla libertà, ed. cit., p. 270.
54 C. Fabro, Problema e mistero del male, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 207.
55 S. Kierkegaard, Diario 1850, X2 A 644, tr. cit., nr. 2936, t. 7, p. 173.
56 C. Fabro, Problema e mistero del male, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 211.
57 C. Fabro, Preghiera e azione, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 375.
58 S. Kierkegaard, Diario 1853, X5 A 72, tr. cit., nr. 3753, t. 10, p. 12.
59 C. Fabro, Sull’essenza della testimonianza cristiana, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 304.
60 C. Fabro, Dio e il mistero del male, in Riflessioni sulla libertà, ed. cit., p. 316.
61 C. Fabro, Requiem per un bambino, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 423.
62 C. Fabro, Dio e il mistero del male, in Riflessioni sulla libertà, ed. cit., p. 319.
63 Ibidem.
64 Ivi, p. 323.
65 Ivi, p. 324.
66 Ivi, p. 330. A questo proposito mi permetto di fare una piccola osservazione. Poco più avanti il P. Fabro, pur riconoscendo la «profonda e appassionata» analisi esistenziale del male condotta da Camus, afferma che «egli non si ferma all’episodio dei piccoli trucidati dal sospettoso e crudele Erode, di cui (mi sembra) non faccia neppure menzione» (p. 337). Vorrei ricordare invece che in La caduta Camus coinvolge profondamente il mistero della morte di Cristo al «massacro degli innocenti»: «I bambini di Giudea massacrati mentre i suoi genitori lo portavano al sicuro, perché erano morti, se non per causa sua? Non l’aveva voluto lui, certo. Quei soldati insanguinati, quei bambini squarciati in due, gli facevano orrore. Ma egli non era uomo da poterli dimenticare, ne sono sicuro. E la tristezza che s’indovina in tutti i suoi atti, non era l’inguaribile malinconia di colui che di notte sentiva la voce di Rachele gemere sui suoi piccoli e rifiutare conforto? Il lamento saliva nella notte, Rachele chiamava i suoi figli morti per lui e lui era vivo» (A. Camus, La caduta, tr. it di S. Morando, in Opere, ed. cit., p. 1084 s.).
67 C. Fabro, Dio e il mistero del male, in Riflessioni sulla libertà, ed. cit., p. 331.
68 Ivi, p. 332.
69 C. Fabro, Requiem per un bambino, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 425.
70 Ibidem.
71 C. Fabro, Dio e il mistero del male, in Riflessioni sulla libertà, ed. cit., p, 344.
72 C. Fabro, Sull’essenza della testimonianza cristiana, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 306.
73 C. Fabro, Dio e il mistero del male, in Riflessioni sulla libertà, ed. cit., p. 315 s.
74 C. Fabro, Sull’essenza della testimonianza cristiana, in Momenti dello spirito, ed. cit., vol. II, p. 306.
75 C. Fabro, Gemma Galgani testimone del soprannaturale, Ed. Cipi, Roma 1987, p. 70.
76 Ivi, p. 72.
77 Ivi, p. 47.
78 Ivi, pp. 43 s.
79 Ivi, p. 70.
80 Ivi, p. 71.
81 Ivi, p. 73.
82 Ivi, p. 54.
83 Ivi, pp. 74, 78 e nota 21.
84 Ivi, p. 76.
85 Ivi, p. 85.
86 Ivi, p. 70.
87 Ivi, p. 86 s.
La seguente testimonianza è stata pubblicata in Cornelio Fabro 1911-1995. Testimonianze e ricordi raccolti da Giuseppe Mario Pizzuti, Velia, I, Potenza 1995, pp. 15-19.
Un ricordo di P. Cornelio Fabro
Annie Cottrau
Perugia
Mi è stato chiesto di scrivere un ricordo sul Professore P. Cornelio Fabro, scomparso il 4 maggio 1995, che è stato mio professore e con il quale ho collaborato a Perugia negli ultimi anni di docenza in quell’Ateneo. Io l’ho incontrato per l’ultima volta in una clinica romana, già in preda armale che di lì a poco lo avrebbe strappato alla vita: eravamo bene consapevoli entrambi che quella era l’ultima volta in questa vita che avevamo l’opportunità di incontrarci... anche se lui non era sicuro che io fossi a conoscenza del suo vero stato...
Mi accolse con il suo solito sorriso luminoso ed affettuoso, esclamando: «Ah! ma guarda chi c’è...» – non l’avevo più incontrato di persona da qualche anno... Mi accostai a Lui e mi si strinse il cuore nel vedere il «mio» Professore, il mio caro Padre, colui che mi aveva chiamata «figlia», in quel lettino di ospedale, così debole e così inerme... Gli baciai la mano... gli chiesi se soffriva, se aveva dolori, ma lui coraggiosamente lo negò... ma non poté nascondermelo per molto, perché ogni tanto sorprendevo sul suo viso delle smorfie di dolore invano trattenute. Compresi quindi che lui non voleva che gli altri si preoccupassero o si addolorassero troppo per lui, non voleva dar fastidio a nessuno... Rimasi sconvolta nel vederlo in quello stato, ma trascorrendo tutta la mattina con lui una strana calma interiore si impadronì di me. Lui era sereno e mi trasmise quella serenità... Egli era preparato alla morte ed anzi l’attendeva; era pronto al suo prossimo incontro con Dio, con Cristo, che egli aveva servito per tutta la vita, ed offriva tutto il dolore fisico e morale, tutto se stesso a Lui, semplicemente... naturalmente. È forse questo l’ultimo insegnamento che ho avuto da Lui...
Parlammo di tante cose, del passato «comune» a Perugia, dei «suoi» studenti, che lui aveva tanto amato e dei quali ricordava i nomi uno per uno... lui si augurava che qualcuno di noi proseguisse il cammino da lui intrapreso nella disamina del pensiero di Kierkegaard, suo «amico spirituale» con il quale lui constatava una strana affinità ed una sorta di parallelità che travalica il tempo e lo spazio.
Poi, nel corso della mattinata, avvicinandosi il momento del commiato, prendemmo a parlare in modo più personale: volli ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per noi studenti – facendomene in un certo senso portavoce – con il suo insegnamento chiaro e sicuro ed anche con la sua testimonianza di uomo di fede, di cristiano, di miles Christi. Gli raccontai che tanti giovani che conoscevo, amici, sono tornati alla fede dopo aver ascoltato e seguito le sue lezioni e dopo aver constatato la rigorosità delle sue posizioni filosofiche, la sua lucidità e severità di giudizio, ma anche la sua coerenza di vita e di pensiero. E lo stesso era accaduto anche a me – dovevo soprattutto a lui la mia maturazione spirituale e la conquista di una fede consapevole e matura – ed in questo per me Lui era stato un vero «Padre» spirituale. Lo ringraziai per tutto quello che aveva fatto per me e per tutto quello che mi aveva insegnato... non l’avrei mai dimenticato. Passò qualche momento di silenzio – un silenzio però carico di significato e di parole non espresse – quindi gli chiesi di pregare per qualche momento con lui e per lui e lo facemmo... Poi gli chiesi di darmi la sua benedizione e lui mi benedisse con la formula di rito ponendomi la mano sul capo e aggiunse con voce accorata ma anche in qualche modo imperiosa, indicandomi il piccolo Crocefisso appeso alla parete: «Guardi sempre a Lui! Non lo abbandoni mai!». Gli baciai per l’ultima volta la mano e uscii...
Perché ho voluto cominciare così la mia «testimonianza» sul Professore P. Cornelio Fabro: forse per sottolineare la profondità del suo essere cristiano e la sua fedeltà a Cristo, vissuta fino al momento della morte senza tentennamenti e senza turbamenti, per restituirlo al suo ruolo di Sacerdote e di testimone del soprannaturale ed anche per sottolineare la sua umanità.
Da sempre lo hanno classificato come «filosofo cristiano» o come «filosofo cattolico», come se questo fosse una specie di limite, per coloro che cristiani o cattolici non erano, o come se il filosofo cattolico facesse parte di una categoria a sé, un po’ «parruccona» ed antiquata; qualcun’altro lo ha qualificato come «cattolico integralista» (all’interno del cattolicesimo stesso!). D’altra parte qualcuno preferisce omettere che fosse un sacerdote, nell’ottica che un filosofo è e deve essere prima e soprattutto «filosofo». Ma il professor Fabro, per buona pace di tutti, era un vero filosofo e un vero sacerdote e soprattutto un uomo di statura particolare e con una missione ed un compito particolare, quello di studiare e di insegnare a generazioni di studenti ed un sacerdote al quale era affidata una missione altrettanto singolare, quella di combattere, dall’interno, le degenerazioni del Cattolicesimo e del cristianesimo più puro da un lato, e quella di contrastare dall’interno l’ateismo reale o virtuale dall’altro (si veda l’Introduzione all’ateismo moderno), compiti, questi, tutti assai ardui e complessi.
Conobbi il Padre Fabro quando ero studentessa alle prime armi della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia agli inizi degli anni 70 e rimasi subito profondamente colpita da quel professore, piccolo di statura, dall’aspetto abbastanza dimesso, ma che quando parlava dalla cattedra conquistava tutti, catturava l’attenzione di tutti. Eravamo affascinati dal suo modo di esprimersi, dalla sua vivacità, dalla sua cultura senza fondo. Ci guidava nella lettura dei grandi del Pensiero di tutti i tempi con una acutezza senza pari e con passione – Soleva ripetermi che la filosofia «è un’amante esigente che richiede il massimo impegno e la massima dedizione perché si tratta di cercare la verità e di misurarci con essa». Ci esortava a leggere i classici, ad imparare a memoria alcune espressioni-chiave, possibilmente nella loro lingua originale, per catturare lo snodarsi del pensiero dell’autore esaminato, fino alle estreme conseguenze, talora neppure previste dall’autore stesso. Ci suggeriva le chiavi di lettura e di interpretazione... Leggeva con noi i passi fondamentali, di Aristotele come di S. Tommaso, di Descartes come di Kant o di Hegel, di Heidegger o di Nietzsche... Quello che ci colpiva di più era il profondo rispetto che egli provava per essi e, al tempo stesso, la rigorosità delle sue interpretazioni. Ed ancora ci colpiva la sua modernità (altra cosa rispetto al «modernismo»!): egli accoglieva le istanze del pensiero moderno, la richiesta di significato, il problema della possibilità di una metafisica, il problema del «cominciamento» (del filosofare)... ma dava a queste domande una risposta del tutto originale: originale la sua interpretazione del «tomismo essenziale», del «realismo tomistico», originale la sua interpretazione di Kierkegaard come pensatore soprattutto «cristiano» e grande critico di Hegel (La Postilla conclusiva non scientifica, a cura di C. Fabro). Erano anche gli anni in cui il P. Fabro tentava di spiegare le cause dell’ateismo moderno, di dare una spiegazione teoretica dell’ateismo tipico del pensiero dei nostri tempi: si era caduti nell’ateismo soprattutto per la perdita dell’infinito trascendente, caduto nell’immanenza a partire dal cogito cartesiano fino ad arrivare al Geist hegeliano, allo Spirito hegeliano. Esiste una soluzione a questo empasse in cui il pensiero moderno è caduto? Sì, per il P. Fabro bisogna tornare indietro alle fonti del pensiero e ricomprenderlo alla luce delle nuove istanze del pensiero, istanze peraltro non eludibili in alcun modo. Fin qui soltanto un accenno alle molteplici tematiche affrontate dal Docente Prof. Fabro, ma a me preme sottolineare un altro aspetto della sua persona, quella di «educatore», che così bene si accorda e con la sua figura di «docente» e con la sua figura di sacerdote e di miles Christi e voglio farlo esponendo per somme linee un argomento che gli era particolarmente caro e sul quale insisteva a più riprese, a lezione ed anche fuori dell’aula: il tema della libertà, o meglio della libertà radicale (s. v. Essere e Libertà).
La libertà radicale caratterizza l’uomo, il Singolo, l’io, e tale libertà non può essere mai negata né soppressa, poiché elemento primo ed originario dell’essere dell’uomo, mediante il quale il singolo si pone rispetto al mondo della natura e della storia. Riconoscere e determinare il senso di questa libertà significa riconoscere l’uomo come spirito e come persona. Libertà radicale vuol dire capacità di scelta radicale da parte del singolo, dell’io, che può scegliere di aderire all’infinito o rifiutarlo, piegando nel finito. Per il P. Fabro naturalmente tale libertà era un postulato, perché garantita da Cristo e dalla Rivelazione, ma egli si rendeva conto che per l’uomo contemporaneo, caduto nell’ateismo, la libertà doveva essere invece una conquista, una conquista ardua.
Le ideologie e i sistemi contemporanei tendono ad organizzare una società in cui il singolo è «solo» una parte di un tutto ed in questo «tutto» trova il suo senso e il suo significato. Il singolo come tale si trova attaccato, aggredito da tutte le parti e non solo questo, il singolo crede a volte di trovare proprio in questo «tutto» protezione e garanzia di sopravvivenza, rinuncia perciò stesso alla sua libertà-responsabilità, delegando tutte le sue scelte alla società, al Partito, conformandosi all’«opinione comune», all’opinione della maggioranza, all’opinione della collettività di cui è membro. Così viene negata la possibilità di riconoscere l’uomo come spirito e come persona responsabile del proprio destino. Ma l’aspirazione alla libertà permane comunque e sempre nella coscienza dell’uomo, del singolo, che continua a porsi le domande fondamentali cui la filosofia e le ideologie non sanno dare risposte definitive. L’uomo si ripiega su se stesso e si chiede: «ma è proprio vero che la “mia” vita non ha valore e che non è altro che una corsa verso la morte? La morte è l’unica meta verso cui tendiamo?». Questi sono gli interrogativi che si pone anche l’esistenzialismo di Sartre, Camus ed altri. Ma il singolo si chiede ancora: esiste qualcosa dopo la morte? Esiste la Verità, una verità a cui rapportarsi? Esiste una giustizia, una speranza?
Questi interrogativi possono trovare una risposta solo nella Rivelazione Divina, era questo il punto nodale cui il Padre Fabro voleva condurci, perché è proprio qui che la libertà radicale gioca il suo ruolo principale. È l’Infinito, Dio, il fondamento della libertà dell’uomo: tradotto in termini dialettici, se l’Infinito Trascendente, nella sua onnipotenza, ha posto in essere il finito, e se l’Infinito, attraverso l’Incarnazione di Cristo, ha salvato l’uomo rendendolo libero (e questo lo apprendiamo dalle Sacre Scritture, dai Vangeli), allora la libertà che proviene dall’adesione all’Infinito sarà a sua volta «infinita», radicale ed insopprimibile da qualsiasi potere assoluto, da qualsiasi sistema o da qualsivoglia ideologia – e questa libertà è, appunto, la connotazione principale dell’uomo come spirito e come persona, che a questo punto è una persona responsabile di fronte a Dio, di fronte alla natura ed alla storia. E mediante la fede l’uomo può resistere al flusso del tempo e della storia stessa.
Ho parlato di questo tema poiché il Padre Fabro – e qui uso volontariamente questo appellativo – voleva «educarci alla libertà» perché noi imparassimo a vivere come persone libere e responsabili, prima di fronte a Dio, quel Dio che molti di noi rifiutavano, poi rispetto al mondo della natura e della storia, rispetto alle ideologie ed i sistemi di qualsivoglia natura ed anche e soprattutto nella vita quotidiana...
Ma io non sono stata soltanto una sua studentessa, ma sono rimasta accanto a lui per qualche anno, dopo la laurea, collaborando per quanto potevo con lui, così ho ancora altri ricordi, più personali, ricordi di un rapporto di amicizia e di affetto... Lui è stato per me un vero amico ed un vero Padre, un Padre sollecito e solerte, con il quale ho un debito di gratitudine che non sarà mai ricolmato. Non voglio qui parlare di questo ma piuttosto lasciare la parola proprio a lui, attraverso una lettera che mi scrisse per la Pasqua del 1978, da cui traspare tutta la sua spiritualità e la sua profonda umanità:
Roma 23 III 1978
Giovedì Santo
Gent.ma e cara Sig.na Annie,
è la notte di Giovedì S. e l’ho riservata per lei per un ricordo che le dovevo per la sua buona lettera del 2 febbraio che ho qui davanti a me nella solitudine luminosa di questa notte... «in qua Jesus tradebatur!». E questa notte del mondo continua, non solo perché la maggior parte dei popoli è rimasta quasi impermeabile alla sua Parola di salvezza, ma anche perché i cristiani stessi vanno in cerca di altre luci da quella della sua Croce ch’Egli ha incendiata di amore con la sua morte. Quanti doni non ci ha dato Iddio! l’essere, la vita, il sentimento, l’intelligenza, la libertà... l’aspirazione alla verità, il tormento e la gioia dell’amore per il Bene infinito! E noi spesso, io purtroppo, ci perdiamo in quisquilie ed in faccende invece di concentrare la punta del cuore nell’amore essenziale e cercare la verità che salva e non quella che gonfia cioè l’apparenza che subito si dilegua come fumo nelle immagini umbratili dei sensi.
È per questo – ed ora vengo alla sua cara e tanto delicata lettera – che i testimoni della croce di Cristo come Benedetta (Bianchi Porro) e prima S. Gemma Galgani – di cui quest’anno ricorre il 100° della nascita, mi commuovono tanto: Lei se ne è accorta ed io le chiedo scusa della inopportuna indiscrezione. Vorrei spiegarmi un po’, come ad una figlia delicata e paziente. Vede, lo spettacolo continuo della sofferenza dell’anima e del corpo martella di continuo la povera coscienza che si trova smarrita ed afflitta e chiede: ma perché? È il perché del male, dell’errore e della sofferenza... non tanto, non soltanto e non soprattutto di quella cosmica per il conflitto della dispersione e lotta dei fenomeni, e neppure oserei dire delle passioni umane che hanno, anche in questo mondo, una propria sanzione temporale. Ciò che mi scuote e mi mostra tutta la mia miseria, e perciò mi turba e mi commuove, è la sofferenza degli innocenti: più precisamente, la loro vocazione alla sofferenza, come Gemma, come Benedetta, come tutti gli Eletti... Ed è, Annie cara, una sofferenza senza fondo: quasi abbandonate dallo stesso Dio, come è il suo Figlio in Croce! Ma dentro questo smarrimento che turba la mente, l’anima si scuote e sale a lui, lo loda nei suoi Santi e confida nella loro intercessione e nella sua dolcissima misericordia. Non mi rimproveri più se desidero andare con loro, ma preghi tanto per me. Io tutte le mattine ricordo lei e la cara mamma alla quale porgerà i miei affettuosi auguri della luce di Cristo Risorto, nostra gioia e nostra vita.
Vi benedico con tanto affetto
P. Fabro
La seguente testimonianza è stata pubblicata in Cornelio Fabro 1911-1995. Testimonianze e ricordi raccolti da Giuseppe Mario Pizzuti, Velia, I, Potenza 1995, pp. 10-14.
In Memoriam di Padre Cornelio Fabro
Danilo Castellano
Università di Udine
1 – Quando il 13 aprile, giovedì santo del 1995, mi recai a Roma, consapevole che quello sarebbe stato il nostro incontro dell’addio, non potevo immaginare di tornare a casa spiritualmente edificato oltre ogni aspettativa.
In una clinica sui tranquilli colli della Farnesina padre Fabro, lucido e pienamente consapevole che il male che lo aveva colpito stava violentemente aggredendo il suo fisico, serenamente e fiduciosamente si era affidato al Signore, di cui – ripeteva convinto – era bene si facesse la volontà.
Della morte non aveva paura. Lo aveva dimostrato anche molti anni prima, meravigliando i compagni di viaggio, quando sull’aereo che lo portava in Argentina scoppiò un principio d’incendio. Allora, precipitosamente svegliato dal sonno da chi gli sedeva accanto e informato di quanto stava accadendo, fece un segno di croce e recitò un’Ave Maria. Poi riprese a dormire. Anche in seguito, sul letto della clinica romana, dimostrò di non aver paura della morte. «Chi non sa pensare alla morte – affermava approfondendo e sviluppando una massima di sant’Alfonso de’ Liguori – non riesce a comprendere la vita. Non possiamo delegare un altro a morire al nostro posto, ognuno deve decidere per sé: la morte non è un punto nero o un punto bianco. La morte ha il colore delle qualità dello spirito che vi si prepara: ha la consistenza o l’inconsistenza che le dà ciascuno di noi».
Non che la morte non sia un fatto oggettivo. E, in quanto tale, dolorosamente uguale per ogni essere umano. Di fronte ai fatti, però, ognuno reagisce a modo suo, decide cioè in prima persona. Ognuno di noi, in altre parole, esercita la sua libertà, per la qualcosa ognuno è moralmente quello che ha deciso di essere. Padre Fabro avvertiva drammaticamente la responsabilità della libertà che consente a tutti e ad ognuno di farsi il proprio mondo, di farlo e di disfarlo, «poiché – scrive, per esempio, nell’Introduzione alla bella e voluminosa anche se non facile biografia di una santa a lui particolarmente cara 1 – è un mondo che si costruisce [appunto] nello spazio sempre aperto della libertà».
2 – Cornelio Fabro nacque in singolari circostanze in una modesta famiglia a Flumignano di Talmassons in Provincia di Udine il 24 agosto 1911. Ebbe un’infanzia difficile sia per le condizioni economiche della famiglia sia per le sue condizioni di salute. Tanto che la madre – me lo confidò lui stesso rivisitando il medesimo santuario dopo oltre sessant’anni dall’avvenimento – stanca e sfiduciata dell’impotenza della medicina, lo portò, bambino, alla Madonna delle Grazie di Udine e, spinta dalla fede e dalla disperazione ad un tempo, lo adagiò sull’altare pregando la Vergine Santissima di fare di lui quello che voleva.
A undici anni, anche grazie all’aiuto materiale di un parroco – don Giuseppe Monticoli di Driolassa – cui padre Fabro serberà profonda gratitudine, entrò nella Congregazione degli Stimmatini. Da Verona tornò a rivedere la sua famiglia e la sua casa solo dopo tredici anni. Tornò Sacerdote e già premiato come studioso dalla Pontificia Accademia Romana di San Tommaso d’Aquino per una monografia sul principio di causalità.
Laureato in Filosofia nel 1931 e in Teologia nel 1937, studiò e insegnò anche Biologia e Psicologia. Libero docente in Filosofia teoretica presso l’Università di Roma dal 1948, vinse la cattedra universitaria nel 1954. Insegnò in diverse Università pontificie e statali. Chiuse la sua carriera accademica a Perugia ove, prima di passare alla Facoltà di Lettere e Filosofia, fu Preside di Magistero.
Fu nominato Professore di Filosofia honoris causa dall’Università di Buenos Aires. Fu Visiting Professor presso la Notre Dame University nell’Indiana e a Kansas City (U.S.A.) e tenne corsi su prestigiose Cattedre, fra le quali va ricordata la «Card. Mercier» di Lovanio. Membro di Accademie europee, americane e giapponesi, ricevette diversi premi e molti riconoscimenti per la sua instancabile attività, per l’originale profondità degli studi, per le numerose iniziative scientifico-culturali cui diede vita.
Non mancarono, però, le incomprensioni, le diffidenze, i sospetti.
Dapprima fu criticato per la sua attenzione alla «filosofia moderna» (che conosceva come pochi) e per la sua passione per Kierkegaard. «L’Osservatore Romano» e «La Civiltà Cattolica» (quest’ultima negli anni a noi più vicini si rifiutò anche di pubblicare una recensione del suo libro su Rosmini) nei primi anni 50 gli rimproverarono di spendere tanta parte della sua vita e delle sue energie per un pensatore non cattolico, anzi per un autore cui non spetta nemmeno l’appellativo di filosofo.
All’Università Cattolica di Milano, poi, le sue lezioni venivano «seguite» nel timore che il suo insegnamento si «discostasse» dalle linee interpretative allora ufficiali.
Infine, quando egli, che si onorava di rimanere umile miles Christi e quindi di non aver approfittato nemmeno della benevolenza dei Pontefici con i quali fedelmente collaborò, prese posizione contro la teologia prevalente nel post-Concilio e, cioè, contro la sua «svolta antropologica» e le sue avventure, fu spregiativamente considerato «reazionario» e si tentò di «isolarlo».
Anche la notizia della sua morte, avvenuta alle prime ore del 4 maggio 1995, non ebbe il risalto che meritava: con lui, infatti, scompariva uno dei maggiori filosofi dell’umanità, ma i mezzi di comunicazione sociale, anche quelli cattolici, pur dedicandogli «servizi», dimostrarono spesso al riguardo disinformazione e superficialità. Come ha notato Sergio Quinzio sul «Corriere della sera» del 15 giugno 1995 – e la sua testimonianza è nobile e degna di fede perché proviene da persona che con padre Fabro in qualche occasione ha avuto rapporti non proprio sereni – si era cercato di erigere negli anni del post-Concilio intorno a padre Fabro una cortina di silenzio e si cercò di dipingerlo spesso come «uomo intellettualmente orgoglioso, ancorato a una specie di culto per un passato ormai tramontato». Ma – aggiunge Quinzio – «sento il dovere di dire che queste ricorrenti immagini dello studioso e dell’uomo sono lontane dal rendere ragione della sua profonda esperienza, anzitutto di cristiano e di pensatore esigente e coerente».
3 – Padre Fabro mai parlava per «sentito dire» e non scriveva se non dopo lungo studio, profonda meditazione e serrati confronti. Nella sua biblioteca romana, una biblioteca di quarantamila volumi, definita da Ugo Spirito la migliore biblioteca italiana privata di filosofia, padre Fabro trascorse giorni e notti. Più volte i suoi superiori che, poi, si decisero a «ordinargli» di ritirarsi a una certa ora della notte, lo trovarono all’alba addormentato sui libri, quasi tutti appuntati. Per studiare il pensiero di Kierkegaard, apprese il danese. Non si accontentò di leggerlo nelle pagine dei traduttori e non accettò superficiali e falsificanti interpretazioni della sua filosofia, correnti soprattutto nell’immediato secondo dopoguerra in Italia e, in generale, nella cultura cattolica e laica di allora.
Cinque mi sembrano le direzioni d’indagine filosofica di Cornelio Fabro.
Egli, infatti, approfondì innanzitutto, discostandosi dalle interpretazioni scolastiche prevalenti per secoli nelle scuole cattoliche, il pensiero di San Tommaso, soprattutto quello più strettamente metafisico. Il suo «tomismo essenziale» è principalmente una riflessione e, per taluni aspetti, una scoperta della questione dell’essere che, dopo il pensiero moderno, non poteva essere trascurata. Esso, pertanto, è non solo la risposta del tomismo ad Heidegger ma rappresenta anche un’originale «lettura» di San Tommaso e, soprattutto, un’interpretazione-disvelamento della realtà. «La metafisica di San Tommaso – scrisse lo stesso padre Fabro – mi ha liberato per sempre dai formalismi e dalle vuotaggini delle controversie scolastiche».
Un secondo, ma non secondario, filone d’indagine è rappresentato dall’esistenzialismo kierkegaardiano che Fabro interpretò in maniera originalissima tanto da ritenere che il protestante Kierkegaard fosse virtualmente cattolico sia sotto il profilo filosofico sia sotto il profilo teologico.
Lo studio di Kierkegaard, comunque, sin dall’origine contribuì a rafforzare in lui la convinzione che i sistemi filosofici moderni, a cominciare da quello hegeliano, fossero antiumani e anticristiani e che non fossero decisive le obiezioni che a questi rivolgevano coloro (Sartre, Heidegger, Abbagnano, Camus, Henri Lefebvre, etc.) che in qualche modo rimanevano legati alla negatività della dialettica moderna, dove il negativo forma l’essenza della coscienza in movimento.
La sua terza importante direzione d’indagine filosofica ha avuto per oggetto il pensiero moderno. Monumentale è, a questo proposito, la sua Introduzione all’ateismo moderno; modestamente intitolata, appunto, Introduzione ma opera fondamentale di oltre mille pagine, tradotta anche in inglese.
Collegata a questa e alla confutazione del «tomismo scolastico», soprattutto di quello suareziano, è la «presa di posizione» di Fabro contro la «svolta antropologica» della teologia post-conciliare e le sue avventure. Come ho avuto modo di sostenere nelle pagine del primo capitolo della mia monografia dedicata al suo pensiero2, Cornelio Fabro coerentemente ritiene che la teologia post-conciliare, soprattutto quella di Rahner, anziché essere nuova sia la riproposizione del «vecchio», ove per «vecchio» è da intendersi la combinazione di due errori: quello formalistico della Scolastica (che porta alla falsificazione del pensiero di San Tommaso) e quello del pensiero moderno (che rivendica l’autonomia del conoscere rispetto all’essere). Soprattutto Rahner, perciò, non è un «caso». La sua svolta antropologica è in linea con il principio moderno d’immanenza, che è intrinsecamente ateo poiché coincide con l’affermazione radicale dell’io come fondamento e porta, quindi, all’espulsione radicale di Dio secondo l’intera qualità intenzionale della coscienza.
Un quinto e ultimo filone di ricerca è rappresentato dall’indagine dedicata al pensiero rosminiano, che padre Fabro studiò – lo ricordo ancora alle prese con le pagine della Teosofia nel suo spartano e modesto appartamento al Flaminio – per «commissione» del papa Paolo VI. La sua conclusione è che, sotto l’aspetto speculativo, nelle opere più mature Rosmini proponga un «sintetismo» che «si presenta come un compromesso ambiguo di empirismo [...] e di apriorismo, deviarne dal realismo tradizionale e impotente sia a fondare una filosofia cristiana sia a frenare l’irruenza nichilistica e atea dell’immanentismo moderno».
4 – Come ha scritto il padre rosminiano Remo Bessero Belti, che pure dissentì e dissente dall’interpretazione fabriana di Rosmini, l’impegno filosofico di Cornelio Fabro non può che destare ammirazione. Il lavoro da lui svolto, tutto il lavoro da lui svolto, non poteva che nascere – e nacque – da un grande amore per la verità3.
Egli non limitò la sua ricerca alla sola filosofia. Trattò anche, con fine sensibilità e con la consueta profondità, temi teologico-spirituali come, per esempio, La preghiera nel pensiero moderno e scrisse pagine di elevata ed edificante spiritualità come, per esempio, Momenti dello spirito. Non trascurò l’agiografia: alle vite dei santi, infatti, dedicò tempo e fatiche, convinto che il bando o l’ignoranza del soprannaturale fosse (e sia) l’insidia più grave per la vita dei cristiani e per la stessa teologia. Le sue biografie dei campioni di santità non sempre sono di facile lettura e talune sue tesi – come, per esempio, quella secondo la quale Cristo continua a patire per i peccati degli uomini – hanno fatto discutere, come, del resto, continuano a far discutere talune sue tesi filosofiche.
Padre Fabro non fu apostolo solo dalla cattedra o della penna, ma esercitò con zelo il suo ministero sacerdotale. Gioiva quando nel confessionale poteva assistere ad autentiche conversioni e, non raramente, al pianto sincero, come quello della peccatrice in casa del fariseo (Lc 7,36-50) per la passata vita peccaminosa del penitente. Alla «sua» Messa, a Santa Croce al Flaminio, partecipavano persone colte e meno colte; tutti, però, apprezzavano le sue omelie e, spesso, le parole di consiglio e di conforto che sapeva avere al termine della Messa per chi a lui si rivolgeva.
5 – Era ed è voce diffusa – e in tal senso si è anche scritto – che egli avesse note temperamentali di caparbietà e di durezza. Non è solo mia personale impressione – recentemente, conversando con me, la smentì per esempio anche un Rettore di un’Accademia straniera – che questa voce sia infondata. Padre Fabro aveva un carattere forte e un alto senso di responsabilità. Non era disposto a transigere su questioni di giustizia o di coscienza. Il suo era un animo delicato, capace di donare – come spesso donò – sincera amicizia.
Era umile, ma di un’umiltà vera, non farisaica. Era, perciò, consapevole del suo valore e ringraziava Iddio per i talenti che gli aveva dato. Aveva un cuore buono, semplice come quello di un bambino. Anche lui come tutti – attraversò momenti ardui, esperimento la solitudine nella lotta. Trovava, però, conforto nelle parole e nell’esempio di quanti avevano saputo infondergli quand’era bambino una fede salda, che conservò per tutta la vita. Per questo fu sempre disponibile alla «buona battaglia». E nei momenti della tentazione seppe respingere lusinghe ed onori.
1 Cfr. C. FABRO, Gemma Galgani. Testimone del soprannaturale, Roma, Editrice CIPI, s.d. (ma 1987), p. 21.
2 Cfr. D. CASTELLANO, La libertà soggettiva. Cornelio Fabro oltre moderno e antimoderno, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1984, pp. 51-55.
3 Cfr. R. BESSERO BELTI, in «Charitas», Stresa, a. LXIX, n. 6, giugno 1995, p. 172.
Cornelio Fabro: Maestro ed Amico
Nello Dalle Vedove, C. S. S.
Il titolo per presentarmi non è tanto quello di confratello di p. Cornelio, quanto l’essere stato, tra gli stimmatini, forse, il più vicino, il più intimo, fin dal 1935. Al mio vivo sentimento di riconoscenza, che ho sempre conservato e che ho ritenuto di esprimergli anche quando sul letto di morte celebrò il suo 60° di Messa, corrispose da parte del p. Fabro nei miei riguardi una specie di vanto, che esternò non solo alla beatificazione e poi alla canonizzazione del Fondatore d. Gaspare Bertoni, di cui ero postulatore, ma anche in tante altre occasioni. Mi considerava, a dirlo ingenuamente, sua creatura.
Ma prima di entrare nella fase dei miei contatti diretti, vorrei premettere alcuni cenni biografici del periodo antecedente.
Infanzia
P. Cornelio nacque il 24 agosto 1911 (all’ottavo mese di gravidanza) a Flumignano, paesello lontano 18 chilometri da Udine. Fino al quinto anno fu affetto da impotenza motoria, che gli impedì di parlare e camminare. Si esprimeva a segni, perché sebbene non potesse parlare, riusciva a capire.
Ad aggravare il suo stato si aggiunse una tremenda anoressia con rifiuto del cibo e pianto continuo. Riusciti vani tutti i tentativi di cura, il p. Guardiano dei Cappuccini ebbe l’ispirazione di inviarlo al Santuario della Madonna delle Grazie in Udine. Appena la madre con slancio di fede posò il figlioletto sull’altare della Vergine, il bambino smise di piangere e fece un ampio sorriso. Era guarito.
Seguirono gli spaventi e le privazioni della prima guerra mondiale.
A quattro anni non ancora compiuti è colto da tifo nero e giunge agli estremi. Provvidenzialmente arriva in paese una compagnia di artiglieri con il medico, il quale prepara un infuso e glielo applica. Al mattino il malatino è sfebbrato e fuori pericolo.
Nell’estate del 1915 è colpito da una dolorosissima mastoidite. Verrà operato nell’ospedale di Udine, dove rimarrà degente fino alla primavera del 1916.
Impossibilitato a frequentare le elementari, apprende i primi elementi, stando a casa, dal fratello maggiore. Solo in terza riesce ad andare regolarmente alla scuola del paese. Per frequentare la quarta deve portarsi a piedi quotidianamente a Talmassons, e riesce a primeggiare su tutti i suoi compagni.
Vocazione religiosa
Durante una missione gli si consolida la vocazione religiosa già accarezzata da tempo. Il 27 ottobre 1922, saltando la quinta elementare, parte per la Scuola Apostolica Bertoni degli Stimmatini alla SS. Trinità di Verona, dove riceve una formazione solida, austera, come era d'uso in quei tempi. Frequenta le scuole del Ginnasio “Stimmate” e dà gli esami di terza alle Regie Scuole cittadine “Scipione Maffei”, con esito brillante. (Presentando nel programma d'italiano anche i Sepolcri del Foscolo, il professore gli chiese quali tratti sapesse a memoria: “Tutto”, fu la sua risposta. Era di una memoria veramente eccezionale).
Il 1 novembre 1927 entra in noviziato, sotto la guida del supplente padre maestro (non ne aveva l’età, ma faceva tutto lui), d. Paolo Zanini (1901-1970), sacerdote intelligente, volitivo, appassionato dell’ideale bertoniano, che aveva trovato modo di influire spiritualmente anche su alcuni compagni della Cattolica di Milano, tra i quali il futuro cardinal Angelo Dell’Acqua, che gliene serbò sempre gratissima memoria. Negli ultimi due mesi di noviziato padre maestro è d. Emilio Recchia (1888-1969), ben noto a S. Croce, dove sarà parroco per tanti anni e morirà in concetto di santità. Il novizio Fabro prese sul serio l’anno più decisivo della sua vita, abbracciando anche delle personali austerità, che potevano compromettere la sua ammissione alla professione per motivo di scarsa salute.
I primi voti religiosi
Pronunciati i voti religiosi il 2 novembre 1928, inizia la prima Liceo e gli ordinari corsi di filosofia, all’interno della Scuola Apostolica. È rimasta di questo primo anno di professione una sua predica d’esercitazione sul Ven. Bertoni, che svela già nel diciottenne oratore delle capacità riflessive rilevanti. Nel prologo egli dice:
«Già gli antichi dissero che la specie umana gode di questo vantaggio: fra tutti gli esseri creati corporei essa sola partecipa del lume divino, la sua ragione è qualcosa di divino, ciò che è più divino in tutto il nostro essere. Ora le idee che noi formiamo tendono a manifestarsi non soltanto nel verbo interiore, ma anche nel verbo esterno, nella parola, espressa nelle sue varie forme. Essa manifesta ai nostri simili i frutti più belli della nostra energia, li fa giungere alla loro mente e stabilisce fra noi e gli altri un intimo legame: in essi allora c’è qualcosa di nostro! Per questo noi amiamo immensamente questo dono: ed alla morte di qualche persona cara proviamo uno schianto al cuore, perché essa non potrà più comunicare con noi, non ci parlerà più. O, se i morti potessero parlare!
«Ed alcuni parlano. Defunctus adhuc loquitur: il linguaggio conciso ed espressivo dell’esempio perdura anche dopo la distruzione organica e supera le barriere della morte; così gli uomini dai grandi esempi parlano sempre alla mente ed al cuore di coloro che portano scritte non su carta corruttibile ma nell’anima il ricordo delle loro virtù.
«Così anche il nostro ven. Padre. Oggi ci parla... la sua Santità».
E procede a scrivere, per una decina di pagine di quaderno, il discorso che reciterà il 12 giugno 1929, anniversario della santa morte del Bertoni. Tra gli insegnamenti che dice di cogliere dalla voce del Fondatore v’è quello dell’umile nascondimento, proprio del grillo chiuso nella sua buchetta e tanetta: «Sai -avverte il ven. Padre- il mio spirito, lo spirito che deve pervadere ogni tua azione: Buseta e taneta io diceva e ridiceva. L’amore del nascondimento era in me non solo un amore ma una vera e grande passione d’ogni ora e d’ogni minuto». E’ una caratteristica del Fondatore che sarà ben colta fin da ora da Cornelio Fabro, alieno sempre da esibizionismi.
Finito con grande plauso la prima liceo, i superiori lo destinano a continuare gli studi a Roma. In agosto si porta presso il santuario mariano di Ortonovo (La Spezia) per completare privatamente gli studi liceali, in un ambiente riposante. Poi all’inizio dell’anno scolastico si porta nella casa romana di S. Agata de’ Goti in Via Mazzarino, sede della Curia Generalizia e del Collegio Internazionale degli Stimmatini.
Don Luigi Benedetti
Trova come prefetto dei chierici un altro candidato degli altari, già suo primo confessore a Verona, il soavissimo e dolcissimo padre Luigi Benedetti (1884-1957). Fu di d. Benedetti l’idea di una rivista in cui i giovani professi potessero esercitare le loro attitudini filosofiche, teologiche o letterarie. «Risfogliarla oggi -scrive il p. Gino Facchin- è piacevole: scrittori dalla penna traballante, umorismo ingenuo, illustrazioni primitive. Eppure fu questa la prima rivista del chierico Cornelio Fabro: un titolo senza dubbio di grande onore per gli umili nostri Echi Romani», che diventeranno ben presto Stigmatina Juventus (N. Dalle Vedove, P. Luigi Benedetti, Roma 1965, 186).
Il p. Fabro dirà, fra l’altro: «Non ho conosciuto nessuno nella Congregazione che tenesse tanto in alto lo studio (...) come p. Benedetti. Ogni piccolo successo dei suoi studenti lo faceva sfavillare di gioia e correva ad informare il p. Generale» (Ib., 187). Ma la scuola migliore del pio padre era, al dire di quei chierici, il suo sacerdozio vissuto.
Laurea in filosofia
P. Cornelio Fabro frequenta l’Università Lateranense e nel 1931, appena ventenne, consegue la laurea in filosofia con la tesi La oggettività del principio di causa e la critica di David Hume.
Teologia all'Angelicum
Per lo studio della Teologia passa all’Università di S. Tommaso (Angelicum) e qui si verifica un vero appassionato innamoramento per l’Aquinate. Fin dal primo anno è incaricato di tenere ai suoi compagni di S. Agata il panegirico del santo Dottore. «Fra i vari lati -dice- della grande figura del nostro Santo ve n’è uno che spesso rimane nascosto, ma che per noi è di non poco interesse ed utilità: il suo amore e la sua stima per lo stato religioso; ci limiteremo ai tratti biografici più salienti». Dopo aver messo in rilievo ciò che rapportava il Santo con la vita consacrata, concludeva:
«Alla vita religiosa il nostro Santo consacrò tutto se stesso in ogni epoca della sua esistenza con le opere e con la scienza: ed è un modello completo di vita religiosa sotto ogni suo aspetto. E’ ammirabile vedere giovani e giovanetti come s. Stanislao, s. Giovanni, s. Luigi entusiasti della loro vita religiosa, ma indubbiamente più ammirabile vedere un uomo che non solo negli anni dell’entusiasmo, ma anche nella matura virilità fra le più sfarzose e oneste lusinghe tenersi santamente ed eroicamente attaccato a questo stato che per Lui appariva come il mezzo più atto a seguire Cristo.
«Gli insegnamenti quindi del nostro santo Patrono sono eloquenti su questo punto (...)».
Perciò il giovane Fabro, svelando quali fossero i suoi sentimenti in relazione alla opzione fondamentale della sua stessa vita, esortava:
«Amore grande quindi a questa vita, alle regole, ai confratelli, ai Superiori: dobbiamo amare tutto quanto come l’ambiente in cui si sviluppa la nostra crescita spirituale, come l’aria che ci tiene in vita, con un amore più nobile e intenso che abbia il soldato per le armi, l’artista per lo strumento, il contadino per l’aratro. Ci traccia il solco per l’eternità la vita religiosa e probabilmente per noi essa sola» (Roma 23.02.1932).
Il 20 dicembre 1934, al Palazzo della Cancelleria gli viene conferito dalla Pontificia Accademia Romana di S. Tommaso d’Aquino il primo premio nel concorso per una monografia su Il principio di causalità, origine psicologica, formulazione filosofica, valore necessario ed universale. Ne parlò ampiamente L’Osservatore Romano nel numero del 22 dicembre.
Santa Croce in via Flaminia
L’8 settembre 1934, il Fabro si era trasferito alla casa di S. Croce in via Flaminia, destinato come organista della chiesa. Dal 17 giugno era qui nuovo parroco il suo antico padre maestro dell’ultimo periodo di noviziato d. Emilio Recchia.
Ordinazione Sacerdotale
Il ritorno a S. Agata si verifica in occasione della sua ordinazione, come si legge ne Il Bertoniano: «Il fatto più saliente, più interessante per la nostra cronaca avvenne il primo mese del periodo (aprile-giugno 1935), il giorno 20 aprile, sabato santo, con l’ordinazione sacerdotale (in S. Giovanni in Laterano) del nostro d. Cornelio Fabro appartenente allora nuovamente di diritto e di fatto alla casa di S. Agata. Fatto che portò tanta gioia e festa a tutti specialmente ai compagni Studenti» (nº 3, 15 sett. 1935, 95). Per l’ordinazione era stata ottenuta la dispensa di cinque mesi dall’età canonica.
La prima Messa solenne la celebrò al paese solo il 29 giugno, festa dei SS. Pietro e Paolo, rivedendo per la prima volta il suo nativo Flumignano dopo tredici anni di assenza.
Licenza in teologia
Rientrato a Roma si licenziò, il 7 luglio, in teologia a pieni voti (summa cum laude).
Durante l’estate si portò col prof. Giuseppe Reverberi, già suo insegnante al Laterano, alla Stazione zoologica di Napoli per lo studio dei problemi fondamentali e degli stretti rapporti fra biologia e filosofia.
Nel 1935-36 figurerà iscritto al secondo corso di Scienze Naturali all’Università di Padova, e nel 1937-38 al terzo anno in quella di Roma.
A Verona
A metà ottobre 1935 p. Fabro è a Verona per iniziare l’insegnamento della filosofia ai chierici dell’Istituto stimmatino. La Scuola Apostolica Bertoni era allora nel massimo suo fiore. Io, entrato da sette anni, non avevo mai avuto alcun contatto col p. Cornelio, perché la prima ginnasio ero salito a farla a Trento, e quando l’anno seguente tornai a Verona, egli era già partito per Roma. Sentivo, però, che tutti ne parlavano come di un talento eccezionale e se ne mostravano fieri. Si può immaginare perciò l’entusiasmo mio e dei miei compagni nell’accoglierlo a Verona, dove veniva ad inaugurare il suo curriculum d’insegnante.
Io mi trovavo al secondo anno di liceo, ma per i corsi di filosofia (Cosmologia e Psicologia, in quell’anno) tutte le tre classi si riunivano in una sola, attorno alla cattedra di p. Cornelio. Al giovedì, giorno di vacanza, egli teneva lezioni di storia della filosofia, alle quali intervenivano liberamente anche molti teologi. Tracciava più che altro dei medaglioni sui filosofi principali. C’è chi ricorda ancora la magistrale trattazione su s. Agostino.
Sotto il suo insegnamento
La mia prima impressione fu folgorante. La scuola non era più la pedissequa lettura ed esposizione di un testo scolastico, per di più, in latino (fino allora il Farges-Barbedette), ma uno svolgimento originale, vivo e coinvolgente, in lingua italiana, dei vari problemi suscitati dal trattato della Cosmologia, prima, e poi, nel secondo semestre, della Psicologia, alla luce dei principi di s. Tommaso, con i suoi più accreditati commentatori e con aggiornamenti che arrivavano fino all’ultimissima produzione in campo filosofico e scientifico. Le lezioni potevano dirsi a livello universitario, ma dei più alti. E come nelle Università, il professore ci consegnava il distillato dei suoi studi in dispense, che facevano gola anche in Seminario, dove era insegnante il fratello sacerdote del nostro chierico Scatolini.
L’impegno del p. Cornelio era constatabile anche al solo mettere piede nella sua camera, dove pareva seppellito dai suoi libri. Oltre a quelli che aveva portato con sé da Roma, un buon numero glielo forniva la biblioteca della Scuola Apostolica, poi quella della casa madre delle Stimmate, dove il Fondatore aveva allestito una delle librerie più preziose della città. Ma non contento di questo, ricordo che si fece venire, per esempio, dalla nostra casa di Parma, i volumi del Gaetano. Naturalmente si faceva aiutare da qualcuno di noi quando doveva poi arrivare in classe con un peso enorme.
Faceva impressione la sua assiduità nell’applicazione allo studio. Sembra incredibile, ma in quel primo anno io non l’ho mai visto prendersi uno svago, con un passeggio o un po’ di sport. Avevamo un vasto orto con ampi cortili, alla SS. Trinità. Mai che p. Fabro scendesse una volta per prendere una boccata d’aria lungo i viali o a trattenersi in ricreazione con gli studenti. Così che quando alla fine dell’anno scolastico lo vidi finalmente giù nel nostro orto ebbi l’impressione come di una cosa strana.
L’unico suo diversivo era quello che si prendeva nell’andare ad assistere le orfanelle di Via Carlo Montanari, nella casa retta dalle Salesiane: qui celebrava la Messa, faceva il catechismo, confessava, faceva insomma da cappellano, ma con uno zelo e con un amore, una dedizione davvero straordinari. Ci fu, fra quelle animucce, chi ha approfittato della scuola di tanto Padre per maturarsi bene e avviarsi su una via di totale consacrazione. Almeno con una, che divenne un pezzo grosso di un grande Istituto, d. Cornelio rimase in relazione fino alla fine della sua vita.
Ma torniamo alla scuola. Qui dobbiamo dire che p. Cornelio, essendo anche prefetto degli studi, ebbe buon gioco nel far trionfare i suoi punti di vista, anche quando evidentemente, facendo la parte del leone, assicurava alla filosofia quella prevalenza sulle altre materie, che nessuno prima s’era mai sognato di fare. Riuscì, per esempio, ad ottenere che gli esami interni delle varie materie, contro il nostro uso, venissero fatti alla fine della terza liceo, come nelle scuole pubbliche, e che solo per la filosofia l’esame fosse annuale. Così la immediata preoccupazione degli studenti rimaneva quella dello studio della filosofia.
Il mio personale rapporto con p. Fabro
In quanto al mio personale rapporto con p. Fabro devo confessare che a mano a mano che l’anno scolastico avanzava, sempre più mi convincevo della fortuna che m’era toccata di essere alla scuola di un genio e mi sentivo come trascinato dalla sua parola e dal suo metodo in modo da scoprirmi totalmente trasformato. Il p. Fabro se ne accorse e quando alla fine dell’anno si venne alla selezione di tre soggetti da inviare a studiare a Roma, egli presentò anche il mio nome. Incontrò l’opposizione del consiglio di casa. Ma il p. Fabro con la forza anche della sua carica di prefetto replicò: «o con questo o nessuno dei tre». La spuntò e così venni incluso nella triade. Fui poi l’unico a raggiungere la meta, per grazia di Dio, certo. E il p. Fabro, ogni tanto, si compiaceva d’essere stato lui ad imprimere questa svolta nella mia vita e a considerarmi come sua creatura. Ma quando pareva tutto combinato, c’era da fare ancora i calcoli con qualcos’altro. Salito alla villa di Sezano il 1 luglio, al mattino seguente, per un banale incidente (l’errore nella somministrazione di una medicina), fui agli estremi. P. Fabro, addoloratissimo, rimandò la sua partenza per la Stazione zoologica di Napoli, e salì in serata a visitarmi. Ero ormai fuori pericolo, mi benedisse e mi diede l’appuntamento per Roma, dove anch’egli era destinato per conseguire la laurea in Teologia.
All’inizio dell’anno scolastico 1936-37 mi trovai dunque a S. Agata con p. Fabro, il quale non solo frequentava il quinto anno di Teologia all’Angelicum, ma faceva da assistente del prof. Reverberi nell’insegnamento di psicologia sperimentale e biologia al Seminario Romano. Contemporaneamente si dedicava alla stesura della tesi sul principio di partecipazione secondo s. Tommaso d’Aquino.
Non era più mio insegnante, come a Verona, ma in ogni mio problema ricorrevo da lui non solo per quanto si riferiva allo studio, ma anche alla vita dello spirito, scegliendomelo come confessore e padre spirituale. Fu quindi per sei anni guida saggia e amorosa che mi accompagnò nella mia ascesa al sacerdozio. Lo trovai settimanalmente, e anche più spesso, sempre accogliente, comunicativo, stimolante. Mi portava come per mano non solo a contatto dei grandi pensatori ch’egli stava studiando, ma anche dei Santi di cui era più invaghito. Dopo la Madonna, s. Agostino, s. Bernardo, santa Caterina da Siena, santa Gemma Galgani e così via.
Ho potuto seguirlo nelle varie fasi della sua preparazione della tesi di laurea e il 30 ottobre 1937 ho assistito alla sua difesa, in cui conseguì summa cum laude. In una confidenza fattami posteriormente mi faceva intendere che nello scrivere sulla partecipazione si era sentito così assorbito da non avvertire quasi la parte sensibile del suo essere.
L’ho seguito anche nella sua pubblicistica, collaborando spesso alla correzione delle bozze, e ricevendone poi copia con dedica.
Fin dal 1935 sul Bollettino Filosofico dell’Ateneo Lateranense (nº 1, 45-55) aveva pubblicato il suo primo articolo: Avicenna e la conoscenza divina dei particolari. Nel 1936 sulla Rivista di filosofia neoscolastica (nº 2, 101-141) il suo studio: La difesa critica del principio di causa, che ebbe la recensione di L. B. Geiger sul Bulletin Thomiste (gennaio-marzo 1938, 401). Il dotto domenicano concludeva che le righe del p. Fabro «portent la marque d’un esprit philosophique authentique». Ma siamo appena agli albori.
Nel 1938 viene nominato Professore Incaricato della Cattedra di Biologia anche nel Pontificio Ateneo Urbano di Propaganda Fide.
Nel 1939 esce la sua tesi di laurea: La nozione metafisica di partecipazione secondo san Tommaso d’Aquino - Saggio d’introduzione analitica al pensiero tomista, Milano, «Vita e Pensiero». Mons. Olgiati congratulandosi con l’autore definì l’opera «un lavoro splendido». E mons. Martino Grabmann di Monaco scriveva a p. Fabro: «Già da una prima ripassata mi convinsi della vostra straordinaria familiarità coi testi di san Tommaso da tutte le sue opere ed in ispecie dai commenti su Aristotele. Mi rallegro poi dell’eccellente maniera con cui nella vostra opera sapete unire la profondità della speculazione con una esatta metodica trattazione storica» (Il Bertoniano, nº 2, 1 giugno 1939, 288). Dalla S.E.I. ne fu fatta una 2a edizione nel 1950 e una 3a nel 1963; non è poco per un’opera filosofica. Con una certa soddisfazione mi confidava negli ultimi anni d’aver ricevuto una telefonata da Napoli: un professore di quella Università intendeva congratularsi col p. Fabro per l’opera sulla partecipazione, che stava studiando con vivo entusiasmo, rimase al telefono per una buona mezz’ora definendo quella del Fabro «l’opera del secolo».
L'oratore
Intanto il p. Fabro si afferma anche come buon oratore e viene richiesto da varie parti. In occasione del 50° di Messa dell’ex Superiore Generale degli Stimmatini, p. Giovanni Battista Tomasi, fu p. Cornelio a tessergli il discorso gratulatorio nella Messa celebrata solennemente a Sant’Agata. Il suo fu «un dotto ed elevatissimo discorso sul Sacerdote e sulla sua alta missione spirituale, tracciando con profondo pensiero teologico la lotta che il Sacerdote deve condurre in se stesso e contro i nemici del bene, per poter compiere la sua divina missione di legato di Cristo. Disse brevemente del compito che spetta al sacerdote, quando membro di una famiglia religiosa è chiamato a reggerne le sorti e con evidente allusione al p. Tomasi, che della Congregazione dei Padri Stimmatini fu superiore generale per 11 anni, disse come il superiore possa e debba continuare in ciascuna famiglia religiosa, lo spirito del Fondatore. Concluse affermando che il padre Tomasi era giustamente onorato perché, e del sacerdote e del religioso, egli era vero modello» (Il Bertoniano, nº l, 15 marzo 1940, 14).
L'insegnante
Tralascio di accennare a tutte le promozioni e incarichi d’insegnamento, che lo portano ben presto alla cattedra di metafisica sia al Laterano che a Propaganda Fide. Non posso invece omettere di accennare al suo ministero presso le Pallottine di Via S. Agata de’ Goti. La Pia Casa, fondata da s. Vincenzo Pallotti, accoglieva una schiera di bambine in difficoltà per famiglie dissestate economicamente o moralmente. Egli continuò quella cura premurosa che aveva già dimostrato nell’orfanatrofio di Verona. Era facile accorgersi che quelle creature sfortunate erano divenute tutte il suo pensiero, il suo amore e anche la sua delizia. Si sono verificati anche dei casi inspiegabili, sorprendenti, come quando un giorno al termine della Messa confidò alla ragazza che fungeva da sacrestana: «Guarda che durante la celebrazione ho avuto una luce tutta particolare sul tuo avvenire». E quella figliuola che non aveva mai pensato alla sua vocazione, diverrà suora pallottina, e sarà sostenuta, difesa e incoraggiata da p. Fabro, che la allieterà anche in seguito delle sue visite e dei suoi scritti. Il 18 gennaio 1948 le scriveva: «Sono molto contento, dopo quasi 8 anni di lavoro alla Pia Casa d’aver visto un’alunna entrare fra le Figlie del Pallotti. Spero che sia seguita da una schiera di compagne (...) Devo ringraziarla in modo particolare dell’augurio che mi rivolge di farmi santo: io spero ch’Ella mi vorrà assistere con la sua preghiera a placare la divina giustizia che certamente dev’essere sdegnata con me per aver fatto così poco e cattivo uso di tante, quasi infinite grazie concessemi in questi 12 anni del mio sacerdozio. Chissà come me la passerò al tribunale di Dio: quando penso che il ven. Pallotti si chiamava “gran peccatore” e indicava se stesso come “un peccatore che brama convertirsi” mi vengono i brividi» (Lettere, nº 1308).
«Oggi -le scriveva il 24 agosto 1948- compio 37 anni, con 13 di sacerdozio, e mi pare di non aver fatto nulla per la s. Chiesa e per le anime: eppure sento un desiderio immenso di correre in loro aiuto. Magari potessi darmi al ministero attivo, e lasciare questi libri: non voglio per altro che la Santissima Volontà di Dio».
Anche con me ribadiva il punto della necessità per il sacerdote di una gran santità. «Il fine principale della Congregazione -diceva- è quello della santificazione degli individui. Quando una Congregazione è riuscita a fare un santo, ha fatto un’opera grandissima. La fondazione di tante case e parrocchie in confronto di questa è un niente» (4 nov. 1939).
Il 7 luglio 1941 mi portavo ai SS. Giovanni e Paolo per iniziare gli esercizi in preparazione all’ordinazione. Ero sconvolto dalla notizia avuta in giornata della defezione di un sacerdote che mi era carissimo. P. Cornelio è salito in settimana fino al convento dei Passionisti del Celio per confortarmi. Poi alla mia prima Messa, detta privatamente su un altare laterale di S. Agata, volle accompagnarmi gentilmente con il suono dell’organo.
Finii la teologia con la licenza nel 1942 e mi portai a Verona per insegnare un po’ di filosofia alla Scuola Apostolica. Finiti gli anni duri della guerra, il p. Giuseppe Stofella che a S. Agata era arrivato al culmine dei suoi lavori storici per la Causa di Beatificazione del ven. Gaspare Bertoni, chiese ai Superiori che io gli venissi concesso in aiuto. Perciò nell’ottobre del 1945 mi trovai di nuovo a Roma.
Per far intendere chi fosse p. Stofella, a cui venivo assegnato, ricorro ad uno scritto posteriore dello stesso p. Cornelio, redatto nel 1989 in occasione della Canonizzazione del Beato Bertoni.
«L’imminente canonizzazione del nostro amato Fondatore mi richiama -dice il p. Fabro- la figura di p. Giuseppe Stofella al quale si deve il passo decisivo, rappresentato dal Summarium additionale della Positio super virtutibus. Un profondo senso della realtà storica, una convinzione profonda della santità del Bertoni con la coscienza critica della mentalità dell’Ottocento, tempo di rivoluzioni per tutta l’Europa, con un eccezionale fiuto dei documenti, lo misero sulla via giusta, la quale, continuata con altrettanto ardore dal p. Dalle Vedove, lo fa il protagonista indiscutibile della conclusione che ha portato alla Canonizzazione.
Negli anni più fervidi del suo lavoro, presso la Curia Generale, egli passava ogni mattina a darmi un fraterno saluto e ad informarmi dei progressi del suo lavoro: appena faceva qualche colpo grosso [ritrovamento di documenti] passava subito nella mia camera a darmi la comunicazione. Altissimo ingegno musicale e poetico, egli sprofondava nell’interpretazione del documento e tesseva con facilità la costellazione storica della realtà ivi indicata. L’indifferenza dell’ambiente con le sue idee storte non lo scoraggiò mai ed era felice quando qualche stimmatino giovane si metteva dalla sua parte; egli soffrì molto per le incomprensioni (...) gli bastò l’incoraggiamento del Card. Ferdinando Antonelli [allora Relatore Generale della Sezione Storica della Congr. delle Cause dei Santi], che lo scoprì e lo protesse. Posso dire, come testimone diretto, l’impressione di gioia e di sicurezza che l’accompagnarono fino alla fine: il premio venne presto con l’assunzione di un discepolo di pari energia e fiducia (...)» (Comunità Stimmatina, nº 9, aprile-sett. 1989).
Da queste righe si può comprendere quale guadagno io avessi fatto col dover ritornare a S. Agata. Venivo a trovarmi al fianco di due sommi: p. Stofella e p. Fabro. Mi venne concesso anche di completare i corsi di Teologia all’Angelicum per il dottorato, pur dovendo rimandare ad altro tempo la stesura della tesi. E intanto mi toccava anche un altro grande onore, quello di essere condiscepolo del futuro Papa Giovanni Paolo II.
Il p. Alfredo Balestrazzi che era stato al fianco del celebre p. Riccardo Tabarelli (+ 1909), professore di teologia all’Apollinare, ch’ebbe l’onore di conferire la laurea a Pio XII, a Giovanni XXIII, e a diversi cardinali, mi confidava che il p. Fabro, sebbene così giovane, aveva già superato quella nostra antica gloria, per la vastità e profondità dei suoi studi e delle sue pubblicazioni.
Direttore della Comunità di Santa Croce
Nell’estate del 1947 ritornai a Verona e non mantenni che corrispondenza epistolare col p. Fabro e qualche incontro fugace, come in occasione della difesa della mia tesi di laurea all’Angelicum nel 1950. Ma il p. Fabro dall’8 agosto 1949 era passato direttore della Comunità di Santa Croce al Flaminio, composta da undici sacerdoti e tre fratelli laici, che avevano in cura la grossa parrocchia (circa 40 mila anime) retta ancora dal santo d. Emilio Recchia. Per alleggerirgli il compito di direttore e poter attendere agli studi furono concessi ampi poteri al padre vicario.
Il 22 ottobre 1949 scrive ad una sua figlia spirituale: «I Superiori mi hanno fatto Direttore di questa Casa che ha la cura spirituale di una delle più grandi Parrocchie di Roma. Insieme continuo la scuola di filosofia a Propaganda Fide e a novembre comincerò un Corso di filosofia anche all’Università di Roma avendo vinto, primo in classifica, il Concorso del Ministero dell’Istruzione. Per questo ho grande bisogno di preghiere onde il Signore mi aiuti a difendere la Sua Verità e mi dia un po’ di forze fra tanti guai» (a Sr. Agata delle Pallottine).
Il 13 dicembre 1950, p. Fabro «tiene la sua prima lezione come Libero Docente all’Università di Roma. Contro ogni aspettativa e ogni tentativo poco simpatico -si legge nella cronaca della casa- sono ad ascoltarlo un bel numero di uditori che rimangono pienamente soddisfatti e ammirati del suo sapere» (Il Bertoniano, nº 1, 1950, 165). È cosa ardua ora seguirlo in tutti i suoi impegni e viaggi, anche all’estero, in Argentina e Cile, per Congressi di filosofia. Ovunque è richiesto e accolto con grande stima.
Nel 1954 è vincitore della Cattedra di Filosofia teoretica presso l’Università di Napoli e diventa Straordinario di Filosofia teoretica e direttore dell’istituto Universitario di Magistero «Maria SS. Assunta» di Roma. Più volte mi ha ripetuto la sua soddisfazione per questo successo, perché, mi diceva, dall’unificazione d’Italia nessun sacerdote aveva conseguito una cattedra di Filosofia teoretica. Egli era il primo.
Nel 1956 si porta a Milano, con ben 68 casse di libri, per insegnare all’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove è promosso Professore Ordinario di Ruolo (1957).
Nel 1958 rientra a Roma. Nella Cronaca di S. Croce si legge: «Arriva p. Fabro che riprende l’insegnamento lasciato due anni fa al Maria Assunta; anche in parrocchia il suo alto Ministero farà tanto del bene» (Il Bertoniano, nº 3, 1958, 91).
Nel 1958 fui nominato Postulatore generale e scesi a Roma a S. Agata. Ogni domenica mi portavo a S. Croce per svolgere il mio ministero e così potevo settimanalmente incontrarmi col p. Fabro.
Nel 1959 fui impegnato con lui per le celebrazioni cinquantenarie della morte del p. Riccardo Tabarelli, del quale io curai la parte storica e il p. Fabro quella scientifica (cf. Il Bertoniano, nº 4, 1959, 383-411). Per sollecitazione poi di mons. Antonio Piolanti il p. Cornelio si prese cura della stampa dell’Opera omnia del p. Tabarelli e così la mia collaborazione si protrasse per anni. Il Sommo Pontefice Giovanni XXIII, ammirato discepolo del padre stimmatino, alla pubblicazione del primo volume De Deo Uno (Roma 1962) ebbe la degnazione di inviare una sua lettera di congratulazione al Rettore della Pontificia Università Lateranense, che aveva promosso l’impresa, dicendo: «suave est meminisse Nos, adulescentia florentibus annis, in Pontificio Seminario Romano eum [p. Tabarelli] audivisse, magistrum sincera pietate sanaque doctrina eximium, ubertate et copia scientiae spectabilem».
La vigilia del Natale 1967 mi trasferii a S. Croce dove rimasi fino al 19 settembre 1995. Potei essere al fianco del p. Fabro ininterrottamente per 28 anni, fino alla sua morte.
Zelo apostolico
Posso dire del suo zelo apostolico in modo superlativo. Il suo confessionale, che era accanto al mio, lo vedevo sempre affollato di fedeli per tutta la mattina delle domeniche e feste. Alla ore 12 usciva per celebrare la S. Messa, con quelle famose omelie, che venivano ascoltate da una folla strabocchevole. Giungevano anche da fuori per sentirlo, come casualmente udii un giorno da un monsignore romano, il quale non aveva voluto mancare a questi appuntamenti domenicali. Puntuale con la sua famiglia capitava pure l’on. prof. Gabriele De Rosa, che poi s’intratteneva cordialmente col Padre. Non posso omettere le sue conferenze nella sala Costantiniana, dove il concorso era così grande da rendere insufficiente l’ambiente, gli uditori, specialmente giovani universitari, si stipavano sul corridoio e fin sulle scale. Non parlo poi delle persone di tutti i ranghi che lo venivano a consultare, verso tutti si mostrava disponibile al limite del suo tempo, perché l’insegnamento all’Università di Perugia e la sua produzione filosofica lo assorbivano immensamente.
Nel primo pomeriggio, qui a Santa Croce, si sbizzariva con un po’ di sport scendendo in campo per qualche partita di calcio coi giovani.
Per la teologia erano anni di fuoco. P. Fabro non mollava sui principi. Io sentivo i suoi sfoghi appassionati. Ricordo che più di una volta feci pressione perché intervenisse. Ero convinto che le sue qualità insuperabili di polemista dovevano essere messe a servizio della Chiesa, per il trionfo della verità. Forse qualche asprezza gli è sfuggita, ma la limpidezza dei suoi intenti gli fa gran merito, perché mai ha inseguito facili consensi o vani applausi. E la sua coerenza l’ha mantenuta fino all’ultimo sulla linea dell’umilissimo Bertoni, nonostante non disconoscesse i talenti che Dio aveva deposto in lui.
Negli ultimi anni
In uno degli ultimi anni (1990 o 91) racconta p. Alessio De Marchi ex-provinciale: «Dopo un Ritiro intercomunitario degli Stimmatini consumammo in famiglia il pranzo sociale. E p. Fabro si collocò a tavola alla mia destra. A un certo punto gli dissi: “Padre, la fatica a Perugia sta per finire. Ha tanto scritto, pubblicato; è stato qualificato Educatore di tanti giovani nella sua brillante carriera, che sentimenti prova, adesso, prossimo a lasciare?”. Mi rispose: “Mi sento poca cosa. Se tu credessi... ma io provo molta più stima per molti di voi, che avete occupato dei posti di ministero, di comando, di missione, di fondazione di nuove opere... Credimi, sono sincero...”. Rimasi “sbalordito”. M’è sembrata una risposta degna di un “Grande”. Commovente risposta, perché “umile”».
Posso aggiungere quanto mi raccontò il p. Pietro Bortignon, fratello del vescovo di Padova, uomo di grande semplicità e di intensa preghiera. Era stato grande apostolo dei giovani proprio qui a S. Croce, ma trovava sempre i suoi spazi di prolungata orazione, fino ad esprimersi chiaramente, quando qualche rara volta si era trattenuto in conversazione un po’ prolungata: «Devo ritirarmi, perché mi sono troppo divagato». «E non credere -mi disse un giorno- che il mio modo di fare non sia apprezzato anche dai grandi. Un giorno ero tutto assorto in preghiera in S. Croce, e ad un certo momento, passando padre Cornelio, si è chinato su di me e mi ha sussurrato all’orecchio: “Ti invidio!”».
Il 29 agosto 1984, da Villa Cabrini di Rieti, dove era in riposo, mi indirizzò una lettera, con entro un’immagine di santa Gemma Galgani e reliquia. Merita di essere conosciuta a conclusione di questo mio povero intervento.
«Caro D. Nello,
questa è per te con una fervida richiesta della tua carità che ti prego di usarmi in punto di morte che mi sembra non dev’essere ormai lontana: in queste due settimane, in questa Casa religiosa in completo isolamento, ho potuto raccogliermi e preparare l’anima nell’impetrare la divina misericordia. Ora tutto mi abbandono alla sua Volontà.
1. Ho seguito come guida in questi giorni il libretto di Hieremias Drexel di cui feci cenno a tavola prima di venire a Rieti: Mortis nuntius. A Roma lo tengo da anni sempre sul tavolo: prendilo in mano e cerca di seguirlo, se avrò un’agonia, per confortare la mia anima.
2. Possibilmente metti a capo del letto il Crocifisso di ebano nero, l’Annunziata del Beato Angelico e mettimi nella mano il rosario di grani di legno che sta attorcigliato al Crocifisso del tavolo di studio.
3. Ho pregato e continuo a pregare per te e per il tuo lavoro, sia per la Canonizzazione del Beato Fondatore, sia per la difesa e diffusione del suo autentico spirito: non scoraggiarti, né perdere la pace per le contraddizioni e le incomprensioni. Mettiamo tutto nelle mani di Dio. Anche la Santa Cabrini raccomandava molto lo spirito del S. Abbandono.
Ringrazia per me il Signore per gli aiuti continui e potenti coi quali ha illuminato, quasi passo per passo il lavoro di ricerca e difesa della verità con un’opportunità e delicatezza infinita. Troverai qualche appunto su questo in un’Agenda (Banco Agricolo Milanese 1979). Di questa mia lettera e del suo contenuto non parlare a nessuno, neanche a me, prima della mia morte.
Intanto ti ringrazio in anticipo per l’atto di carità che ti chiedo e che cercherò di ricambiarti quando sarò con Dio.
Tuo P. C. Fabro».
Negli ultimi tempi, quando era immobilizzato sulla carrozzella, gli dicevo: «Padre, adesso è il tempo delle virtù eroiche». Sorrideva e continuava silenziosamente la sua offerta in abbandono totale.
Padre Cornelio Fabro, Professore e Maestro, nel ricordo di un'allieva
Sr. Rosa Goglia
La conoscenza con il prof. Fabro risale all’anno accademico 1958-59, quando allora egli era docente di Filosofia Teoretica alla LUMSA. Quello era per me il primo anno di Filosofia e confesso che mi sentivo un po’ intimidita, sia per l’approccio con la nuova disciplina, sia per la figura del professore: il viso era molto concentrato, quasi assorto, l’andatura leggera e svelta, una piccola borsa nera sotto il braccio, contenente libri ed appunti. Quando entrava in classe, iniziava subito la lezione: alle ore 12.15. Senza batter ciglio i trequarti d’ora passavano d’un fiato, nel silenzio attento di noi alunni che non avevamo nemmeno il tempo di stancarci tanto era la chiarezza espositiva pur nella profondità di contenuto.
A noi del primo anno che frequentavamo insieme a quelli del II, a loro e a noi non esitò a metterci in mano: La Nozione metafisica di partecipazione, secondo S. Tommaso D’Aquino, di 383 fitte pagine; «Un Saggio come questo –egli scrive nella Prefazione– troppo denso e disadorno, non è fatto per il gran pubblico: esso cerca i sinceri ‘amici delle idee’ che, appartati dal brusio delle vicende contingenti, cercano in serenità l’itinerario delle cose eterne» (p.VI); titolo del Corso "I principi dell’essere". Il secondo esame di Filosofia teoretica aveva come titolo "Dio e l’uomo" tra i volumi da studiare: Dio. Introduzione al problema teologico e Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino. Nell’ Avvertenza Fabro dice: «…i frequenti richiami ad Hegel e ad Heidegger intendono indicare i punti di volta più significativi del modo di essere in cui si è sprofondata la coscienza moderna e contemporanea»…pertanto, il presente studio vuole indicare «l’orientamento della metafisica nel solco del tomismo originario, quale teoreticità pura dell’essere come atto, così che la speculazione non può fermarsi al rapporto dell’essenza all’essere, ma deve fondare l’appartenenza costitutiva dell’essere all’uomo e dell’uomo all’essere, chiarendo a un tempo perché l’uomo si cerca nell’essere e perché l’essere s’illumina nell’uomo» (p.5). Una simile analisi teoretica è di tale profondità che pochi filosofi metafisici possono raggiungere.
Il passo dal professore al maestro si faceva sempre più breve!
Agli alunni era solito dire: «Non vi impressionate per l’esito degli esami, vi espongo subito il mio criterio di valutazione: 30/30 spetta a S. Tommaso, a me il 29, agli alunni dal 28 in giù, ma mai il 18». Ed ora posso riferire la mia esperienza: il 19 giugno del 1960 sostenni il secondo esame di Teoretica, faceva assistenza il prof. Reginaldo Pizzorni, O.P.; l’esame durò oltre un’ora, mi sentivo un po’ affannata nello scalare quelle vette cui egli conduceva; uscii dall’aula un po’ stordita e perplessa, gli altri esaminandi mi facevano ressa, come sempre succede: «Com’è andata? Cosa ti ha chiesto?…» passano interminabili 5 o 6 minuti, il prof. Pizzorni mi richiama per ritirare il libretto con il voto e la firma. Per un attimo pensai: «Mi ha bocciata, però lui sostiene che non attribuisce nemmeno il 18…». Bene, entro in aula: con volto austero Fabro mi consegna il libretto chiuso e mi redarguisce di non lasciarmi dominare dalla curiosità e di verificare la valutazione fuori dall’aula, nel corridoio. Uscita che fui, i presenti mi chiedevano: «quanto ti ha messo?». Un’amica mi tolse il libretto dalle mani e lesse il voto: 30/30. Il primo uscito dalla penna del Fabro, che contribuì a farmi sentire tanto ignorante! Sensazione che ancora provo. In seguito altri 30 si scrissero con quella penna, maggiormente nell’ultimo decennio del suo insegnamento.
Seppure con qualche esitazione chiesi al professore di poter scegliere la tesi in Teoretica con lui; provò a propormi Hegel, previo studio della Lingua Tedesca: dopo una breve pausa di riflessione, accettai. Subito dopo la laurea, conseguita con il massimo dei voti e la lode, ma con la medesima sensazione del primo trenta, F. chiese alle mie superiore, perché nel frattempo mi ero consacrata pronunciando i voti di povertà, castità e obbedienza, di avermi come assistente di cattedra, ma a causa di alcuni impedimenti non mi fu dato il consenso.
La solida preparazione e formazione ricevuta dal suo insegnamento mi fu sufficiente per affrontare e superare gli esami di stato ed inserirmi così nei Licei statali.
Chiunque abbia incontrato e conosciuto Padre Fabro, così preferiva che lo si chiamasse, non solo studiando i suoi scritti, ma ascoltando e frequentando le sue lezioni o dialogando con lui negli spartani locali della sua ricca ed amata biblioteca (circa 40.000 volumi che conosceva ad uno ad uno), non poteva non ricevere l’impressione di trovarsi davanti ad un grande maestro. Egli era sempre disponibile al dialogo ed al confronto, mai misurando l’interlocutore che gli stava davanti, ma sempre con atteggiamento vigile ed attento, ricercava quel briciolo o frammento di verità che poteva nascondersi nello scrigno del proprio segreto. Egli è maestro, perché ricercando sempre e solo la verità, la perseguiva come conquista libera dell’incontro maestro, discente. Ogni sua espressione aveva la forza di aprire un varco, una breccia sull’infinito nella mente dell’interlocutore il quale riteneva opera sua quella capacità di guardare con i propri occhi quella luce, mentre a lui non si doveva nulla, poiché il suo compito era di rendere liberi anche dal suo insegnamento, perché la libertà è rischio e responsabilità. Egli è maestro, ancora oggi, di libertà: libertà per la verità e verità nella libertà.
Dopo la laurea non potei seguirlo nella carriera accademica, come ho accennato, ma ebbi l’opportunità di usufruire della registrazione delle lezioni universitarie in un arco di tempo che va dal 1966 al 1983. Non solo le lezioni accademiche ma anche le Omelie per un totale di circa 770 registrazioni, quasi integralmente da me ascoltate e trascritte. La frequentazione dei suoi scritti e l’ascolto delle lezioni, ha supportato la mia preparazione professionale e le molte iniziative di ministero apostolico. Dal 1966 al 1977 ho incontrato personalmente Padre Fabro pochissime e sporadiche volte. Dal 1977 al 1995, anno della sua morte, ho vissuto una nuova dinamica di discepolato, iniziata con la correzione di bozze delle sue innumerevoli pubblicazioni, via via intensificandosi in forme più articolate, quali: l’ordine delle sue cose, la cura e la pulizia della Biblioteca, in ciò coadiuvata da una valente collaboratrice, l’insegnante Annamaria D’Ambrogio che si è distinta anch’ella fino al 1995 in preziose iniziative di supporto alle molteplici esigenze di un grande studioso. E tutto questo non abitando nella stessa città: Fabro a Roma, la D’Ambrogio ed io a Frosinone; le visite si fecero settimanali e la gran parte del lavoro si svolgeva a Frosinone, divenuta quasi una succursale e questo senza nulla togliere agli impegni professionali di lavoro e di Congregazione. Mi passava per le mani la gran mole di manoscritti che dovevo provvedere a far dattiloscrivere, verificando la fedeltà di trascrizione e, dopo averli sottoposti al professore, spedirli alla Casa Editrice, per iniziare quindi nuovamente la correzione delle bozze; ciò mi ha consentito di leggere, in anteprima, almeno tre volte ogni nuova opera. Non solo, ma ho potuto osservare la scrupolosità del suo lavoro, l’impegno di rimanere nell’essenziale, la cancellatura di ciò che sembrava superfluo a lui, a me mai; ma certo non osavo insistere: al più mi conservavo fotocopia di parti eliminate, e lui se ne accorgeva. Qualche volta aggiungeva tra il serio e il faceto: «lo pubblichi dopo la mia morte»; non mi ha mai obbligato però a distruggere. In fede, preciso che non ha mai lasciato sui tavoli stracolmi di carte e di libri il lavoro del Sant’Uffizio, che teneva chiuso in un cassetto, o al più avvisava di non toccarlo. Sono testimone delle sue fatiche per portare a termine la terza edizione del Diario di Kierkegaard, stava quasi per interromperlo se l’avvocato Stefano Minelli, dell’Editrice Morcelliana, non avesse escogitato, previo suo consenso, di inviare le bozze direttamente a me, per cui potevo sottoporgli il testo già corretto. Non minore tormento e travaglio gli costò il volume Gemma Galgani, testimone del soprannaturale, arrivò quasi allo stremo delle forze. Altra fatica estenuante fu la stesura degli Appunti di un Itinerario, un’autopresentazione richiestagli dall’Università di Perugia che pubblicò un volume in suo onore Essere e Libertà in occasione del suo congedo. Ne fece tre stesure.
Sull’onda dei ricordi, tante cose affiorano nell’animo, ma forse non si può dire tutto in una volta. Voglio ancora ringraziarlo, in riferimento alla mia collaborazione, per avere inserito il mio nome nelle seguenti opere: Kierkegaard Diario, vol. XII, Morcelliana 1983, 215; Kierkegaard Gli Atti dell’Amore, Rusconi 1983, 137; Momenti dello Spirito, vol. II, Assisi 1983, 438; Gemma Galgani, testimone del soprannaturale,CIPI, Roma 1987, 19.
Gli chiesi più volte, umilmente insistendo, di scrivere, come fece il suo maestro S. Tommaso d’Aquino, un commento al Pater Noster e all’ Ave Maria, di stendere per iscritto le sue Preghiere, i suoi Ricordi…egli a volte non rispondeva, a volte si schermiva, ma io dolcemente insistevo; ricordo che una volta sentendomi sconfitta, mi espressi così: «Padre Fabro, lei deve farlo» ed egli sorridendo replicò: «deve?, a Padre Fabro si dice deve!…» Io mi limitai a cambiare verbo, ma senza desistere. Imperioso mi urgeva dentro secondo gli insegnamenti tomistici: melius est contemplata aliis tradere, quam solum contemplari.
Spolverando e sistemando le sue carte, i documenti di Archivio, per i quali mi ordinò di prenderne visione e di classificarli almeno nella mia mente, ebbi modo di recuperare scritti, articoli, estratti che non figuravano nelle sue Raccolte di Miscellanee; fu così che mi venne l’ispirazione d’integrare qualche bibliografia antecedente al 1977 e di portarla avanti, ma anche di compilare il suo Curriculum vitae che sottoposi alla sua supervisione.
Ho pubblicato queste ricerche nel volume Cornelio Fabro, pensatore universale, (Tipografia Bianchini e Figli, sas Frosinone 1996, pp.120); il libro stampato con il patrocinio del Comune di Frosinone - Assessorato alla Cultura si apre con una Presentazione di Biagio Cacciola, vicesindaco e Assessore alla Cultura, nonché professore di Filosofia; segue una Lettera di padre Raniero Cantalamessa, Predicatore Apostolico, scritta il 5 maggio 1989 che ripropongo: Caro Professore, da anni le sono debitore di uno dei “grazie!” più sentiti della mia vita. Ora finalmente mi decido a farlo. Il motivo è che per merito suo ho conosciuto S. Kierkegaard ch’è diventato uno dei miei grandi maestri, insieme con Agostino, Pascal, Angela da Foligno e pochi altri.
Da quando ho lasciato l’insegnamento alla Cattolica per fare –indegnamente, certo, e con mio “rischio” direbbe il nostro amico Kierkegaard– il predicatore, è incalcolabile l’aiuto che ho ricevuto da lui, sia per comprendere la Parola di Dio (negli Scritti edificanti), sia per comprendere il destinatario di essa ch’è l’uomo moderno. Anche predicando ogni settimana, in Avvento e in Quaresima, al S. Padre (sono succeduto in questo ufficio a P. Ilarino da Milano che ella forse ha conosciuto), mi è capitato molto spesso di citare brani e pensieri di lui e di presentarlo come una specie di “profeta” moderno, che ha messo a nudo le contraddizioni sia della cultura moderna sia degli stessi che si dicono cristiani.
Leggendo le opere di Kierkegaard (Opere, Diario, Atti dell’amore) così intense e che non lasciano respiro, è facile intuire quanta fatica e quanto coraggio le siano occorsi per tradurre una tale mole di scritti, e non solo tradurle, ma seguirne criticamente lo svolgimento del pensiero, dare al lettore punti di riferimento preziosi e metterlo al corrente dell’andamento del dibattito sull’autore nella cultura contemporanea.
Non solo io, ma tutta la cultura italiana le è debitrice per questo servizio di incalcolabile valore. Se chi accoglie un profeta riceverà la stessa ricompensa del profeta, come dice Gesù (Mt 10,41), che dire di chi fa conoscere un profeta come ha fatto lei? Che Dio dunque la ricompensi del suo lavoro e ci dia di ascoltare, noi per primi, quello che egli ha voluto dire ai cristiani di oggi attraverso questa voce scomoda.
Con tanta stima e con i più fervidi auguri anche per la sua salute, la saluto fraternamente nel Signore Gesù Cristo.
Dev.mo P. Raniero Cantalamessa, OFMCap, Predicatore apostolico.
La parte filosofica "Cenni sul pensiero e sull’opera di P. Cornelio Fabro” (p.19-50) è di Andrea Dalledonne, questo studio già pubblicato nel 1977 ebbe l’approvazione di Fabro. Un breve profilo Cornelio Fabro, discepolo della verità, maestro di libertà (pp11-18), ed infine Nota biografica di C. Fabro e Bibliografia (51-120), sono da me curati.
Il Saggio ebbe varie recensioni in Italia e all’Estero; ne riferisco soltanto una in quanto apparsa prima, in ordine cronologico, pubblicata in Aquinas XXXIX sett.-dic.(1996) 3, di Giuseppe Perini: «Mi sembra che tra gli scritti dedicati a P. Fabro esso sia quello che meglio di tutti finora, ci permette di cogliere in uno sguardo sinottico la figura di questo pensatore nei suoi vari aspetti: umano, religioso, dell’attività speculativa, delle convinzioni riguardanti la società e la Chiesa, ecc., aspetti che si dimostrano strettamente associati nella sua poliedrica personalità» (p. 640): le note biobibliografiche «sono preziose per i futuri studiosi della storia del pensiero contemporaneo, oltre che, in specie, dell’opera del P. Fabro, ma si rivela uno strumento di prim’ordine per la conoscenza della figura di quest’ultimo» (p.641); «Di fronte a tale abbondanza e molteplicità di produzione di cui la Bibliografia di suor Goglia ci ha reso possibile di tracciare uno scorcio, potremmo affermare che anche il P. Fabro, quantunque noto come un professionista del ‘pensiero forte’, è assimilabile, a quegli autori che come suol dirsi, ‘hanno scritto di tutto?’ certo, per quanto riguarda il numero e la varietà dei temi, egli è stato un poligrafo. E’ giusto però osservare che la poligrafia è un contrassegno di mediocrità d una produzione letteraria solo quando l’autore scrive di molte cose dispersivamente perché, in sostanza, non ne conosce a fondo nessuna. E’ invece distintivo della potenza dell’ingegno quando la molteplicità di interessi scaturisce dalla profondità del sapere e dal desiderio di comunicarlo in tutte le forme possibili. Quest’ultimo crediamo sia il caso del P. Fabro, come lo fu di altri filosofi, ad es. Platone, Aristotele e lo stesso S. Tommaso» (p. 642 s).
Il 5 maggio 1996 presso l’Istituto “Maria De Mattias” di Frosinone, ove risiedo, si è tenuto il Primo Convegno nazionale ad un anno dalla morte del filosofo dal titolo "Cornelio Fabro, pensatore universale"; come incontro precedente il suddetto, si segnala il “Colloquio Internazionale” L’Essere e le sue interpretazioni- in onore di Cornelio Fabro svoltosi dall’8 al 10 gennaio 1996 presso la Pontificia Università Lateranense, il Colloquio organizzato dal decano della Facoltà di Filosofia della P.U.L. prof. Mons. Marcelo Sánchez Sorondo, si è concluso con una magistrale e profonda relazione del medesimo sul tema Essere e Libertà in Cornelio Fabro.
Per una sintesi del Convegno di Frosinone, si rimanda alle riflessioni del dottore in Filosofia Andrea Robiglio, studente del compianto prof. Adriano Bausola dell’Università Cattolica di Milano e relatore della sua tesi: Il problema dell’ateismo in Cornelio Fabro, anno acc.1995/96; il riepilogo del Robiglio appare con il titolo Per Cornelio Fabro, in Studi Cattolici 425-426, luglio-agosto (1996) 531 ss.
Lontani dal brusio delle grandi città, dall’etichetta e dall’atmosfera solenne propria delle Università, al confine con i luoghi tomistici: Roccasecca ed Aquino, l’incontro di Frosinone si è svolto in un clima di serena attesa, un raduno di discepoli italiani e non, convenuti da varie regioni d’Italia per onorare il comune “maestro” e per conoscersi. Numeroso ed attento l’uditorio, tra cui anche alcuni studenti della Cattolica di Milano, molti i telegrammi di personalità, non presenti di persona per precedenti impegni: i lavori sono iniziati con un saluto augurale e la lettura del telegramma di Sua Santità Giovanni Paolo II, indirizzato per il tramite della Segreteria di Stato al Vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino mons. Angelo Cella.
Dopo il saluto del vicesindaco prof. Biagio Cacciola, hanno preso la parola i seguenti relatori: il senatore Gabriele De Rosa, i professori: Danilo Castellano dell’Università di Udine, Dario Composta di Roma, Lluis Clavell, rettore magnifico della P.U.S.C., Andrea Dalledonne Università di Perugia, Marcelo Sanchez Sorondo, decano di Filosofia P.U.L., Padre Giampietro De Paoli, vicario generale dei Padri Stimmatini, Eugenio Corti scrittore, dottor prof. Italo Di Monte medico personale di C. Fabro, mentre il prof. Giuseppe Pizzuti, Università della Calabria, invia la sua relazione. Oltre ai relatori suddetti sono intervenuti i professori: J. Josè Sanguineti, P.U.S.C., Francesco Mercadante, Università La Sapienza, Abelardo Lobato, O.P., Università Angelicum; hanno inviato testimonianze Padre Mario Colone, C.P. (principale dattilografo dei suoi manoscritti negli ultimi quindici anni ) e la prof.ssa Maria Luisa Costantopulos.
Prima della ripresa dei lavori pomeridiani, si tenne un incontro informale con tutti i relatori presenti, per istituire l’Associazione filosofica Internazionale Cornelio Fabro. La Concelebrazione Eucaristica ha segnato l’epilogo della giornata.
Le relazioni e gli interventi furono subito raccolti per la pubblicazione degli Atti.
Maestro di libertà perché discepolo della verità
Sr. Rosa Goglia
1. C. Fabro filosofo contemporaneo
Cos’è la filosofia e chi è il filosofo? Il filosofo vero è un maestro che ti senti accanto e che ti comunica una saggezza radicale, in maniera silenziosa quasi inavvertibile e con la sensazione che tutto ciò che hai acquisito, è opera tua, della tua libertà. Il maestro che vogliamo ricordare è Cornelio Fabro, nato a Flumignano piccolo paese in provincia di Udine il 24 agosto 1911. Ricordare Padre Cornelio Fabro nella celebrazione del centenario della sua nascita è per ciascuno di noi una sollecitazione ad interrogarci sul senso della vita e sull’essenza della filosofia come ricerca della verità che ci rende liberi e sicuri nell’aspro cammino dell’umano esistere.
La grandezza del filosofo C. Fabro era pari alla sua umanità e si era soliti chiamarlo Padre Fabro, appartenendo egli alla Congregazione degli Stimmatini. Sulla pagellina ricordo distribuita dopo la sua morte, i Confratelli si sono così espressi: “P. Cornelio Fabro...fu apostolo e missionario della cultura ed attraverso la cultura. Fedele interprete dello spirito bertoniano (magis sapere), abbracciò con passione e dedizione straordinaria il ministero della cultura, come servizio all’uomo e alla Chiesa. Lo studio fu la sua vocazione. La cattedra universitaria il suo pulpito. La penna agile ed incisiva, lo strumento di Evangelizzazione, come annuncio e servizio della Verità da accogliere e da fare. La ricerca il suo itinerario ascetico-spirituale. Ha vissuto con sofferenza apostolica il dramma della frattura tra fede e cultura, tra cultura e vita. Ha lottato perché la cultura fosse promozione e ricerca della Verità liberata da ogni asservimento ideologico. Di una cultura vasta ed illuminata alimentò la sua vita di fede, spesa interamente per la Chiesa amata e servita con dedizione filiale ed esemplare gratuità sullo stile del suo Fondatore e Padre S. Gaspare Bertoni.
Egli, per i Confratelli tutti, per i Colleghi di Università, per gli amici semplici, rimane un punto di riferimento di sapienza, di cultura e di santità di vita”.
La carica ed il fascino della personalità di P. Fabro lasciavano un’orma indelebile in chiunque l’avvicinasse; all’uditore attento si dischiudevano imprevisti percorsi di riflessione e di appropriazione soggettiva della verità. Queste considerazioni non intendono essere un elogio ch’egli certamente avrebbe respinto, ma una doverosa testimonianza alla sua presenza viva tra noi.
Non è facile, credo per nessuno, delineare la sua personalità che ha portato il peso di una poliedrica, svettante cultura cui non era estraneo nulla, né passato né avvenire, abbracciando tutte le manifestazioni del “sapere”: scienza, arte, musica, poesia, letteratura, religione, agiografia...filosofia, di cui fu l’amante essenziale. La filosofia era per lui un’aspirazione che urgeva con stringenti segnali dal profondo della sua anima e fu una decisione quasi improvvisa dopo due lusinghieri, espliciti inviti: uno alla musica, era P. Fabro organista eccellente, ed uno alla scienza sperimentale. Due aspetti poco noti della sua lunga carriera di filosofo e rigoroso ricercatore. Ci proponiamo di parlarne successivamente onde offrire ai lettori un segugio di passione per il vero, per il bello e per riscoprire il gusto della vita1.
In questo “Anno della Fede”, Padre Fabro ci offre una guida illuminata e fedele all’insegnamento apostolico sulle orme di san Tommaso d’Aquino.
2. Il filosofo Cornelio Fabro tra la musica e la scienza
Padre C. Fabro è figura geniale e di geni ce ne sono pochi, forse nemmeno uno per secolo; chi ha la forza e la determinazione di avvicinarsi a questo filosofo e pensatore cristiano, di rara sensibilità religiosa, avrà la gioia di avvertire nel suo animo le vibrazioni dell’infinito. Come ogni genio Padre Fabro era naturalmente versato nei vari campi dello scibile umano. La musica era per lui una sublime passione, ma allora, ci chiediamo: perché non divenne musicista? Aveva egli seguito per due anni i corsi all’Accademia di Santa Cecilia: era studente, aveva ventidue anni, stava eseguendo una suonata di Mendelson; entrò in chiesa il maestro Vignanelli titolare della cattedra di organo a Santa Cecilia, egli attratto dall’esecuzione, volle conoscere il giovane e gli disse: “La sua mano è di seta, può diventare un grande concertista, la propongo come mio assistente”. Fabro, con commozione di rimando: “Maestro, bisogna sposare una donna soltanto. Io ho sposato la filosofia”. Egli diceva di se che quando ascoltava i concerti avvertiva sulla pelle le vibrazioni e se stava in pubblico era costretto a nascondere le mani in tasca.
Ci si chiede anche perché non divenne scienziato. P. Fabro si laureò all’Università Lateranense in Filosofia a soli 20 anni: il 30 giugno 1931. Il piano di studi per la Laurea in Filosofia prevedeva le Scienze, un biennio di Psicologia Sperimentale, Biologia Generale, Elementi fondamentali di Embriologia, tenute dal prof. Giuseppe Reverberi degno continuatore degli ecclesiastici scienziati, che dedicò uno studio a Lazzaro Spallanzani. Ricordava Padre Fabro come il Reverberi evidenziasse gli stretti rapporti fra biologia e filosofia, argomenti che bollivano nella mente del giovane studente, tant’è che largo di benevolenza verso un simile allievo, il Reverberi gli fornì libri e riviste ad integrazione delle lezioni e lo portò con sé, nell’estate del 1935 alla Stazione zoologica (Villa Nazionale) di Napoli, punta di diamante per lo studio dei problemi fondamentali e degli stretti rapporti fra biologia e filosofia. Il Reverberi allestì un laboratorio di biologia secondo i criteri più avanzati della ricerca (periodo spec.1931-1938); in un pomeriggio del tardo autunno 1937 si recò a visitare il laboratorio Enrico Fermi, il Reverberi era assente, rimase unico interlocutore C. Fabro che accompagnò l’illustre ospite nei vari reparti. E. Fermi espresse vivo apprezzamento verso il prof. Reverberi e la sua istituzione. Ebbe in seguito, nella stessa sede, un vivace confronto con un altro valente ricercatore quale fu Aldo Spirito (fratello dell’illustre filosofo Ugo); lo scienziato si confrontò con il filosofo e dinanzi alla complessità delle argomentazioni, riconoscendo le inconfutabili osservazioni, gli disse d’impeto: “Fabro, vai a far filosofia” e lui: “si, hai ragione, studio filosofia; questa è la mia strada”.
Fu questa parentesi scientifica che alimentò in C. Fabro l’impegno di una ricerca rigorosa, seria e che insegna a cimentarsi prima con la realtà in sé, la quale non si lascia facilmente ingabbiare fra le maglie delle arbitrarie categorie del pensiero.2
Si deve a questo interesse scientifico e alle sue fondamentali sollecitazioni lo studio e la pubblicazione di due imponenti volumi sulla “Fenomenologia della percezione” e “Percezione e pensiero”, una Summa de anima, purtroppo da tanto tempo esaurite, ma ora finalmente ristampate dalla Editrice EDIVI che cura la pubblicazione delle Opere Complete.
L’incontro di P. Fabro con qualunque filosofo era un tuffarsi nel fondo della sua linfa ispiratrice, riuscendo così con ineguagliabile regìa a far emergere ciò che forse all’autore stesso poteva essere sfuggito. La lettura attenta degli scritti di padre Fabro comunicano un afflato maieutico nei lettori, oggi che tanto si cura e giustamente l’aspetto relazionale.
3. Cornelio Fabro Bibliografo, anzi bibliofilo - Un esempio di cultura per i nostri tempi
Per penetrare ed osservare l’orizzonte culturale, nonché lo spessore dell’interesse tematico dell’autore, si rende necessaria una conoscenza o almeno un’informazione delle fonti cui l’autore ha attinto, vale a dire i suoi libri, la sua biblioteca.
“Eccoli lì, nelle stanze della biblioteca [così F. annota in alcuni suoi appunti], allineati negli scaffali, in un ordine più cronologico che di materia, e questo dice già una considerazione di caratterizzazione personale. Quando entro in biblioteca sembra che mi guardino, che mi cerchino, con cenni sobri ma perentori, quasi volessero parlarmi, interrogarmi, istituire un dibattito”.
Da queste espressioni possiamo evincere la passione, la scientificità, la capacità di relazionarsi con gli scritti di ogni autore, non come relegato in un passato concluso e remoto, ma come presenza vivente ed interrogante. Un pensatore essenziale appartiene all’umanità, non alla sua epoca.
I libri sono stati il luogo privilegiato per il dialogo con i grandi. La sua Biblioteca che comprendeva oltre 40 mila volumi (16 le lingue presenti), costituiva la sua ricchezza ed il suo orgoglio; con fine intendimento aveva riconosciuto volumi preziosi, messi lì, su bancarelle, in vendita o in svendita; fu così che acquistò fra gli altri, alcuni volumi del ‘500 con rilegatura in pelle e la seconda edizione originale dell’Encyclopedie Française. Una biblioteca altamente specializzata ed unica nel suo genere, come la definì il filosofo Ugo Spirito. Trattava i libri come se fossero stati la persona stessa dell’autore, specialmente le edizioni originali esercitavano su di lui un fascino particolare. La schedatura della biblioteca serviva ai non addetti ai lavori, lui aveva fotografato nella sua mente e nel suo cuore la collocazione precisa di ogni opera e di eventuale successiva edizione. Quando entrava nella sua Biblioteca salutava quei grandi e conversava con loro e loro con lui; deponeva gli abiti della quotidianità per indossare quelli della perenne giovinezza individuando i percorsi privilegiati di “virtute e canoscenza”3.
Tutta la sua ricerca poggia su due colonne: l'“Essere-actus essendi” e la “Libertà” come “creatività partecipata” in un movimento dialettico e costruttivo carico di progetto e di futuro, per tutti e ciascuno: per il genio, il pensatore, lo scienziato...come per l’ “uomo comune”, il “singolo” del suo Kierkegaard. Il discepolato che Kierkegaard attribuiva a Socrate e Fabro a Kierkegaard, noi l’attribuiamo a Fabro. Non si verificava dal 1870 che un sacerdote vincesse una cattedra di filosofia teoretica, questo egli lo ricordava con molta modestia, ma anche con fierezza.
Dall’alto della sua cattedra universitaria volle titolare l’ultimo triennio della sua carriera accademica: “Analisi esistenziale della vita quotidiana” in tre profonde indagini affrontate una per anno: 1) essere nel mondo; 2) essere nel corpo; 3) essere nell’ io. Questi scritti sono forse una “Summa” della sua metafisica esistenziale dell’essere e della libertà: la vita è bene spesa se riusciamo a rendere libero chi ci cammina accanto. Questa impostazione è forse l’unica in tutta la storia del pensiero. E’ la libertà il prologo e l’epilogo della vera filosofia e la libertà è vera se sgorga dalla Verità e ritorna ad essa: verità quindi nella libertà e difesa della libertà per la verità.
Verità e libertà coincidono dialetticamente, cosicché il cammino dell’una attua la realtà dell’altra. “Orizzontalità e verticalità della libertà” è una sua cifra. Ed è un percorso per coloro che seguono l’esortazione evangelica: La verità vi farà liberi. Gesù non ha detto forse: Io sono la Via, la Verità e la Vita?
4. Padre Fabro sacerdote
Padre Fabro sacerdote, che dire? Il ministero sacerdotale nel modo come l’ha vissuto è la sua più grande qualificazione: il vertice verso cui erano attirate le sue migliori energie di mente e di cuore e da cui rifluivano incandescenti d’infinito. La celebrazione Eucaristica era il momento più atteso della giornata, il balsamo della sua vita. Soleva dire con ingenuo, altissimo candore: “in Paradiso, si celebrerà ancora la Messa?”. Ad osservarlo attentamente durante la Consacrazione del pane e del vino, non poteva sfuggire che dopo aver pronunciate le parole evangeliche: “Prendete e mangiate questo è il mio Corpo”, teneramente ed intensamente baciava l’Ostia consacrata. Si commuoveva sempre ed il suo atteggiamento era visibilmente in sintonia con l’Assoluto; data la sua sofferenza cardiaca il medico gli consigliava di dominarsi. La lettura del Vangelo era sempre preceduta da un attimo di concentrazione quasi un’immedesimazione nella Persona del Cristo che quelle parole da lui lette, Gesù le aveva realmente pronunciate. Le sue omelie così profonde e partecipate attiravano numerosi fedeli anche da luoghi lontani.
Il 20 aprile 1995 ha festeggiato in clinica, dove era ricoverato da molti giorni, il suo 60° anniversario di ordinazione sacerdotale: intorno al suo letto concelebrano l’Eucarestia i suoi superiori e numerosi confratelli; in quella circostanza,P. Fabro, con straordinaria intensità e con stupore dei presenti, tiene un’omelia sul significato della presenza: Eucaristica, spirituale, storica, naturale e della presenza attuante la realtà dell’essere (quindi anche degli assenti) “Per essentiam, per potentiam, per praesentiam. Il S. Padre Giovanni Paolo II, gli fa pervenire in tale ricorrenza la sua apostolica benedizione. Il giorno dopo concelebra4 dal letto del suo dolore, nell’anniversario della prima Celebrazione, la sua ultima Messa.
Tenera e forte la sua devozione alla Madre di Dio e madre nostra5.
In suo onore recitava ogni giorno un Rosario intero; in ogni tasca la Corona del S. Rosario, sulla sua scrivania una Corona attorcigliata al Crocifisso, nelle stanze un’esposizione di quadri della Madonna dei più grandi pittori, alla testata del suo letto un sacchetto con le reliquie dei Santi, sulla parete di fronte due lettere autografe di Santa Gemma, passionista, da lui definita Patrona del mio sacerdozio, confessa che Santa Gemma gli ha dato l’impressione più potente del soprannaturale, ovvero dell’esistenza del mondo della Grazia, della Passione di Cristo e della necessità della sua partecipazione, della devozione alla Madre dei dolori e della nostalgia della Patria celeste6. Leggeva ed assorbiva la vita dei Santi e tutte le memorizzava nella sua mente riccamente dotata; trovava in essi oltre che un esempio di vita, un conforto nella professione della fede così minacciata da tanta moderna filosofia.
La devozione agli Angeli è un capitolo a parte; quando osservava il dipinto dell’Annunciazione del Beato Angelico, anch’essa esposta nella sua stanza, si immedesimava nella persona dell’Angelo, nella cui raffigurazione, sembrava quasi si avvertissero le vibrazioni della trasmissione del messaggio. Anche il suo Angelo custode sarà stato latore di tanti messaggi, lo incaricava spesso e poi gli chiedeva scusa per il troppo lavoro; diceva che in confessionale prima di iniziare l’ascolto del penitente, salutava il suo Angelo Custode. Aldilà di queste considerazioni esistenziali, disseminati nei suoi scritti, si trovano spunti teologici e filosofici sulla natura angelica.
Gli Angeli sono persone: Dio è persona, l’Angelo è persona, l’uomo è persona. A diverso titolo, ma forse non troppo, come San Tommaso potrebbe essere denominato il Dottore angelico7: un’ indagine tutta da approfondire.
5. Padre Cornelio Fabro Testimone di Cristo
Il nostro filosofo ripeteva spesso che la Metafisica di San Tommaso lo aveva liberato per sempre dai formalismi e dall’inconsistenza delle controversie scolastiche. Al grande Maestro rende anche un altro singolare omaggio: che il suo pensiero ed il suo nome fossero indicati due volte espressamente e per la prima volta in un Concilio Ecumenico, il Vaticano II, cui P. Fabro partecipa come perito nell’elenco della Commissione delle Università e degli Studi. Questo lo diceva come espressione di gratitudine a San Tommaso e di servizio alla Chiesa che ha bisogno della chiarezza e della profondità della sua dottrina. Ancora, come il suo maestro, rifiuta ogni carica ecclesiastica e quando il 17.01.1972, viene chiamato dal S. Padre Paolo VI in udienza privata per una proposta di carriera, al S. Padre che incalzava: cosa può fare il Papa per lei? Fabro risponde: “io dal Papa desidero e mi attendo una cosa sola – una preghiera speciale”. Nella sua grande statura anche culturale, il Papa che conosceva bene lo spessore metafisico e teologico del Padre Fabro, voleva conferirgli un riconoscimento ufficiale ed un’onorificenza anche a nome della Chiesa gerarchica, pari a quelle ricevute da altre istituzioni culturali italiane ed estere8, ma P. Fabro, al pari di san Tommaso, preferisce rimanere umile “miles Christi Jesu”, come ha lasciato scritto nel suo Testamento.
Forse sarà stata anche la forza di quella preghiera speciale che lo ha aiutato ad affrontare negli ultimi tre mesi della sua esistenza terrena l’ultima fase della dura malattia che gli ha inflitto sofferenze ed umiliazioni di ogni genere; finché ha potuto ripeteva: “Volontà di Dio, Paradiso mio” in un attivo abbandono all’Onnipotente. Quando parlava del Paradiso il volto gli si illuminava ed era tutto un sorriso, forse le ultime parole che ho ascoltato nitidamente da lui sono state proprio queste: “Suor Rosa, il Paradiso com’è bello!”. Nelle prime ore di giovedì 4 maggio 1995 rende l’ultimo respiro circondato dall’affetto dei suoi confratelli che vegliavano e pregavano accanto al suo letto nella sua comunità di S. Croce al Flaminio in via Guido Reni 2/d a Roma, dove aveva abitato per circa 50 anni.
Grazie Padre Fabro, per quanto hai donato a noi, alla Chiesa, alla tua Congregazione, alla cultura universale, agli uomini di tutti i tempi.
Sr. Rosa Goglia
1 Per una conoscenza articolata della vita di Cornelio Fabro segnaliamo il volume: Rosa Goglia Cornelio Fabro Profilo Biografico Cronologico Tematico, da inediti, note di archivio, testimonianze EDIVI, 2010, pp. 303, ma specialmente il sito: corneliofabro.org ove si trova una ricchezza di documentazione nonché l’audio delle sue Omelie.
2 Negli anni 1935-38 risulta regolarmente iscritto ai corsi dell’Università di Padova e poi di Roma nella Facoltà di Scienze Naturali.
3 Spesso trascorreva le intere notti in Biblioteca e la mattina lo trovavano addormentato con la testa sul tavolo, sui suoi libri.
4 Concelebrante mons. Marcello Sanchez, presenti Suor Rosa Goglia (Adoratrice del Sangue di Cristo), Cristina Mandosi, Edda Ducci. Sul tavolino mobile allestito ad altare: il Messale, il calice, le ampolline, la luce delle candele, una rosa rossa.
5 Riferisco a riguardo alcuni particolari della sua infanzia: Nato in maniera fortunosa, all’ottavo mese, alle 8 del mattino, ebbe nella prima infanzia gravi problemi di salute, anzi di sopravvivenza, specialmente nel suo primo anno di vita; a circa tre anni colpito da una scrofolosi tremenda (ne ha riportato le cicatrici per tutta la vita) era ormai moribondo, fu allora che la povera mamma lo portò ad Udine, al Santuario della Madonna delle Grazie di Castelmonte (UD:) e lo depose sull’altare... da quel momento il bimbo cominciò a migliorare e con gli anni crebbe la sua devozione alla Vergine. Tutte le successive malattie meriterebbero una trattazione a parte, (per più dettagliate informazioni cfr. il vol. Profilo biografico, cronologico tematico di Rosa Goglia, op. cit. pp. 24-27). A quattro anni ancora non camminava e non parlava, in paese era ritenuto un anormale, anche lui capiva di essere diverso dagli altri bambini e ne soffriva, riesce a mitigare questa convinzione all’età di otto anni quando, dopo i primi mesi di frequenza della scuola si accorge che in fondo capiva le spiegazioni della maestra. Un forte attacco di mastoidite lo colpisce a quattro anni (fu l’ultima grave malattia dell’infanzia), viene operato da un chirurgo militare con mezzi “militari” (la grossa cicatrice è rimasta sempre visibile), in preda a forti dolori ante e post operatori non riuscendo a stare in piedi e a camminare, camminava carponi, stringeva l’erba con le mani e si muoveva trascinandosi sul prato, mentre osservava gli altri bambini giocare e vociare intorno. P. Fabro ha sempre conservato un ricordo nitido e ricco di particolari di queste esperienze di dolore, e diceva: “nella mia infanzia ho avuto come fedele compagno della mia solitudine un gatto”. Chi lo ha conosciuto sa quanto amasse gli animali ed il suo relazionarsi con loro: il gatto “un animale metafisico” il leone “un re, gran pigrone”. “Povere bestie – soleva dire – senza loro colpa pagano la conseguenza del peccato originale”. Argomento tutto da approfondire
6 Cf. Cornelio Fabro, Lettere su Santa Gemma al monastero di Lucca, EDIVI, Segni 2013, specialmente p. 12 e pp. 191 ss.
7 I grandi filosofi di tutti i tempi hanno affrontato l’arduo tema degli spiriti custodi.
8 Nelle conversazioni F. soleva dire: “Sapete che sono un ignorante, non sono andato a scuola come voi”. Infatti, a sei anni non può frequentare la prima elementare per gravi motivi di salute; un amichetto più grande che frequenta la seconda elementare gli insegna qualcosa, a fine anno Fabro è ammesso alla terza (1920-21), il compagno ripete la seconda. Frequenta la terza elementare a Flumignano con la maestra Letizia Feruglio (se non ricordo male la rivide l’ultima volta nel 1980) e la quarta a Talmassons con il maestro Italo Luciani, percorrendo ogni mattina a piedi (a volte nudi, diceva sommessamente, quasi per non farsi sentire) tutta la lunga strada; omette la quinta, ma legge i libri che gli fornisce il maestro Angelo Mion per affrontare gli esami di ammissione. A 11 anni entra in seminario ( sarebbe interessante ricordare altri particolari e vicissitudini, ma lo spazio non lo consente) presso il Collegio Bertoni dei Padri Stimmatini a Verona (30.10.1922); qui frequenta i 5 anni di ginnasio (1922-27), interrompe gli studi per il noviziato canonico (1927-28); frequentando un solo anno di liceo, consegue la Licenza Liceale (1929) presso il Regio Liceo Maffei di Verona; l’esame di maturità supera i parametri di valutazione, lascia perplessa la Commissione, il tema d’italiano che richiede un commento al Saul dell’Alfieri è originalissimo, scrive 6 facciate direttamente in bella copia. Il presidente della Commissione chiede un incontro con lo studente, F. è convinto che l’hanno bocciato! Seguono poi gli studi romani (due anni di università) e la successiva carriera accademica. Nell’anno 1935-36 ricopre il ruolo di Prefetto degli Studi e professore di Filosofia, insegna Cosmologia e Psicologia presso lo Studentato Internazionale della Scuola Apostolica dei Padri Stimmatini a Verona. Iscritto al I Corso (1935 e al II 1936) della Facoltà di Scienze della Regia Università di Padova (passa poi alla Regia Università di Roma ove il 25.2.1937 ove risulta iscritto al III anno di Scienze, quale studente ordinario, interrompe al terzo anno per darsi completamente alla ricerca filosofica). Negli anni 1936-40, è docente all’Università Lateranense quale assistente al Laboratorio di Biologia, ha tenuto ivi corsi di lezioni teoretiche sulle relazioni fra Filosofia e Scienze Biologiche (Proff. Reverberi, Enrico Fermi, Aldo Spirito). Successivamente insegna le stesse materie alla Pontificia Università Urbaniana. Eppure, in uno dei suoi ultimi giorni, degente nella clinica romana “Sacra Famiglia”, sulla via Camilluccia a noi visitatori che cercavamo di ricordargli i momenti belli del passato, le sue scoperte: l’actus essendi, la partecipazione, il suo Kierkegaard ...lui attento e compreso dell’argomento, risponde: “Eppure, che ho fatto, sono più ignorante come prima!” era il giorno di Pasqua, 16.4.1995.
Ricordo del p. Cornelio Fabro
Sr. Angela dell'Amore Crocifisso
I miei ricordi del p. Cornelio Fabro risalgono alla mia iscrizione alla Facoltà di Filosofia di Perugia nel 1978-79. Mi sono laureata con lui, ma di lui ciò che rimane nel mio cuore, è il ricordo dell’“uomo”, più che del filosofo. E non perché, come pensatore, non avesse uno spessore notevole, ma perché p. Fabro è entrato nella mia vita con la forza di un provocatore, che stimolandomi ed inquietandomi salutarmente, non mi ha dato tregua fino a che non mi sia posta seriamente davanti a me stessa e a Dio per cercare e trovare il senso della mia vita. In effetti, il senso della vita pensavo di averlo già trovato prima di incontrare p. Fabro, ma lui mi ha insegnato ad andare più a fondo, affrontando con coraggio quella che lui chiamava “la marcia sul posto”, ossia scavando o, meglio, lasciandomi scavare nell’intimo di me stessa a Dio, dove Lui parla nel silenzio necessario dell’anima, aperta all’ascolto.
Ricordo, appena conosciuto, ancora le prime reazioni quasi di sfida davanti a quell’“ometto” (era piccolo di statura), che ci parlava della serietà della vita, della necessità di metterci in gioco, del coraggio di osare, di rischiare il tutto per tutto nella “scelta assoluta per l’Assoluto”. Nella mia ignoranza di allora (non che adesso sia diventata molto più saggia!), mi chiedevo cosa un “prete” – che, per di più sedeva in cattedra, e non si sporcava (a mio sciocco parere) camminando per le strade polverose del mondo – potesse saperne della vita, della sofferenza umana, dell’amore... In realtà, le mie aspre domande erano solo l’inconsapevole reazione ad un uomo che già mi provocava dentro, costringendomi a domande, che interpellavano non gli eventi esterni, che avevano potuto eventualmente condizionare attuali scelte di vita, ma la mia stessa e sola responsabilità di fronte alla Vita in quanto tale che, con i suoi eventi, provocava formidabili opportunità capaci di qualificare responsabilmente la mia libertà.
La critica, sono sincera, è però durata poco. Il “Professore” – descritto spesso dai veterani come temibile ed intransigente, soprattutto con le donne, che da lui sarebbero state ritenute “inadeguate” allo studio della filosofia (si trattava, evidentemente, delle solite “leggende metropolitane”) – si è subito rivelato un “uomo” dal cuore umano, perfino tenero e delicatissimo. Quanto alle donne, ne subiva se mai il fascino e le rispettava, intuendone il mistero sacro e grande che esse custodiscono in sé. Certo, era esigente e non comprendeva, ma ciò valeva per tutti gli studenti di entrambe i sessi, commistioni tra studio di filosofia e divagazioni ad essa incompatibili. A volte, sì, era forse troppo radicale, ma poi mostrava di amare la vita in tutte le sue espressioni e, anzi, di amarla con una passione più calda proprio anche (ma non solo!) per quanto di essa aveva compreso tramite la filosofia. Appassionato a tutto ciò che era “umano”, se sapeva scavare come pochi nel mistero della persona affondandovi con l’acutezza dell’indagine teoretica, sapeva anche seguirlo attentamente in tutto ciò che ne costituisce l’esistenziale quotidiano. Amava la musica, di cui era raffinato intenditore, ma apprezzava anche la buona cucina fatta di cose semplici dal sapore familiare e tradizionale. Capace delle più raffinate dialettiche filosofiche con interlocutori di altissimo livello, sapeva trattare però anche con le persone umili e semplici, che amava profondamente e alle quali mai faceva pesare il disagio per la differenza culturale. Appassionato anche di sport, vi voleva invogliare anche i suoi studenti, tacciandoli bonariamente di “rammollimento” per non essere stati capaci di formare, in tutti quegli anni, neppure una squadra di calcio all’interno della Facoltà. Lo ricordo, al termine di una discussione di laurea, davvero magistrale, commentare al banco della pasticceria “Sandri”, dove il neo dottore ci aveva invitati a festeggiare la sua meritatissima “summa cum laude”, i campionati mondiali di calcio, che proprio quelle sere celebravano l’Italia vincitrice a Madrid.
La filosofia lo aveva reso “più uomo”. Ma il rapporto a Dio, oltre che radicalizzare fino alla profondità ultima il suo essere “uomo”, gli aveva dato il tratto, più umano ancora, di “essere uomo tra gli uomini”.
Le sue lezioni (ho avuto la grazia di frequentare i suoi ultimi 3 corsi accademici, quando in tre tappe ha ripercorso con noi il frutto di tutto il suo pensiero) erano certamente più che stimolanti, erano scuola di vita, che ci hanno insegnato a crescere dentro, e a creare tra noi studenti amicizie dai legami infrangibili perché nate su basi essenziali. Ma al di là del sapere acquisito e della capacità di riflettere, ciò che soprattutto ha saputo comunicarci è stata infatti l’importanza di essere, prima di tutto, “uomini tra gli uomini”. P. Fabro è stato un maestro di umanità – di quella profonda, s’intende! – prima ancora e “dentro”, direi, il suo essere “professore” e “filosofo”. Passò alla storia il racconto di un esame di una studentessa, presa da panico all’idea di doversi confrontare con il “terribile” p. Fabro. E lui, vedendola atterrita, paralizzata dalla paura, cominciò il dialogo semplicemente, interessandosi se la studentessa quella mattina avesse fatto colazione. Da lì iniziarono una conversazione familiare, sfociando – quasi senza che la studentessa potesse accorgersene – nell’argomento dell’esame, che essa sostenne completamente a suo agio, dando il meglio di sé. Questo era il vero Fabro. Questo era il “grande” Fabro, che prima di tutto, prima di essere “professore”, era un “vero Uomo”, che amava cordialmente e sinceramente i suoi studenti.
Quando, all’aula delle tesi della Facoltà di Lettere, presentarono il volume preparato per il suo commiato dall’Università, lui fece un grandioso discorso, citando quelle che erano stati i più importanti punti di riferimento (dopo Dio, s’intende!) nella sua vita. Ricordò per prima cosa i suoi maestri, ai quali doveva il suo ingresso nel mondo del sapere; quindi parlò dei colleghi, il confronto con i quali – sia che condividessero o no il suo pensiero – lo fece crescere. E per ultimo, quale punto più importante, citò noi, suoi studenti. Parlò di noi descrivendoci come la fonte più viva e zampillante, alla quale certamente aveva dato acqua, come sorgente, ma dalla quale disse di aver bevuto anche lui l’acqua più pura e più fresca, che ha dato senso a tutto il suo itinerario accademico, fino a rinunciare per noi a cariche ambite che, insieme al prestigio, lo avrebbero però anche strappato da noi, suoi studenti. Viveva per noi. La sua gioia più grande, diceva era vedere emergere dai nostri occhi, man mano che l’attingevamo nello spirito, la luce della verità. E ci descrisse, facendo riferimento alla “foresta umana” del Macbeth di Shakespeare, come una foresta di fuochi, che si incendiava progressivamente, nella misura in cui ciascuno di noi avanzava verso la Verità o, meglio, nella misura in cui la Verità gradualmente emergeva alla nostra coscienza.
Ricordo che uno degli ultimi giorni di lezione dell’ultimo anno del suo insegnamento, ci fece notare la nostra poco rispettosa (per non dire “maleducata”) cattiva abitudine di non alzarci in piedi quando lui entrava in aula. Aveva atteso la fine del suo percorso accademico, per farci notare la sciatteria del nostro atteggiamento. Per tanti anni non ci disse nulla, come a non voler rivendicare nulla per sé. Ma, come per darci l’ultimo insegnamento di vita, l’ultimo grande regalo, quella volta parlò. Pieni di confusione scattammo tutti immediatamente in piedi. Tutti tranne uno, che alla richiesta da parte del p. Fabro della motivazione di quel gesto, rispose laconicamente di non ritenere opportuno il farlo. Con tanta dignità, ma anche con tanta forza, il Professore allora reagì, osservando che se in quel momento fosse entrato in aula Pertini (l’allora Presidente della Repubblica italiana) saremmo tutti balzati immediatamente in piedi, benché Pertini per noi non avesse fatto un decimo di quanto lui aveva fatto. Restammo tutti zitti, senza fiato, accogliendo anche per noi quella lezione magistrale così gravida di forza e di dignità.
Splendide le sue lezioni, quando parlava dell’uomo, della donna comune, di ciascuno di noi, conducendoci gradualmente alla soglia più intima della nostra anima, lì, dove rimanevamo soli, davanti al mistero della vita, alla Vita stessa, che ci chiedeva una scelta… E lì, alla sorgente del Mistero, ci consegnava ad esso, come il buon maieuta, che dopo aver accompagnato il discepolo al sentiero della Vita, lascia poi che esso vi cammini dialogando con Essa.
Quanti ricordi evocano, le sue lezioni magistrali... Appena terminate, uscivamo in silenzio, meditando le sue parole calate nell’anima ad inciderla con interrogativi essenziali. Per diversi minuti eravamo incapaci di proferire parola, assorti “dentro”. E poi, alla mensa comune, spesso ci riunivamo, un gruppetto di amici, tutti suoi discepoli, a continuare ad alta voce, tra noi, tra un boccone e l’altro, il dialogo provocato dal Padre in aula. E poi, da soli, a casa, a meditare ancora le sue parole, a lasciarci scavare dentro dalle sue domande...
Passarono in fretta gli anni delle sue lezioni, arrivò per me il momento di pensare alla tesi. Lui diede per scontato, che la facessi con lui. Io non avrei mai pensato di chiedergliela, non ritenendomi all’altezza. Ma con lui le cose erano così semplici, l’età gli aveva affinato la capacità di metterti al tuo agio, di essere semplice e di chiedere semplicità. Dopo il primo momento di stupore, fui subito “spiazzata” dalla sua domanda, così che accettai, quasi senza rendermi conto del passo che stavo facendo. Un passo, che mi avrebbe portata molto lontano, al di là della tesi e dell’orizzonte limitato e terreno, che la mia immaginazione poteva supporre. Al tempo pensavo si trattasse solo di impostare le basi per un futuro professionale, in realtà il Signore stava collocando per me le sue pedine nella grande scacchiera del Suo Regno. Ancora non lo sapevo bene. Non capivo l’inquietudine che dentro mi lasciava insoddisfatta di fronte ad ogni alternativa, pure bella, della vita.
Il lavoro alla tesi con il p. Fabro, mi aiutò a decifrare il senso della mia inquietudine. E lui, che l’aveva capito forse prima di me, mi lasciava fare intuendo che agivo sotto una forte pressione spirituale. La rispettò e mi rispettò con discrezione, attendendo con pazienza la consegna della mia confidenza – che intuiva – senza anticipare in niente la libertà della mia apertura, della mia capacità e libera volontà di parlare. Pagina dopo pagina, Dio, con la sua esigenza gelosa, mi attraeva e Sé ed io lo incontravo, per così dire, dietro ogni foglio della mia tesi. P. Fabro, mi scrutava, attento finché, spontaneamente, come per esigenza interiore, gli confidai il disegno di Dio, ormai accolto nel cuore, su di me. Non potrò mai dimenticare la sua reazione, la gioia commossa con la quale accolse la mia confidenza, custodendola come il più bel regalo di quel Natale (eravamo di dicembre, ricordo), la trepidazione di “padre” con cui, da allora, seguì il mio cammino accompagnandomi per gli anni che intercorsero da allora fino al mio ingresso al Carmelo, nel Venerdì Santo – 17 aprile, quell’anno – del 1987.
Da allora in poi, il mio rapporto con p. Fabro cambiò di segno. Già, come scrivevo sopra, maestro di vita, da quel momento la nostra divenne piuttosto una “comunicazione d’anime”. Ormai lui era giunto agli ultimi anni della sua vita, quando essa può essere “letta” dal “Punto Originario” che la illumina, quello dell’“Incontro”, al quale andava preparandosi giorno dopo giorno. Man mano che avanzava il tempo, perdeva mordente, per lui, la dialettica della speculazione intorno alla verità. Il modo di approccio alla Verità era più solo quello della fede vissuta, perché sbiadiva sempre più la forza della verità intesa come “nozione”, mentre prendeva sempre più consistenza esperienziale la Verità amata e perseguita come “Persona”. Non che non ne fosse cosciente prima, ma tutto ciò per cui prima aveva studiato, per cui si era appassionatamente speso, nella fatica di comunicarlo alle nuove generazioni, ora era “lì”, ad attenderlo sulla Soglia sacra della vita. E ne era cosciente e, come S. Ignazio di Antiochia, diceva che era bello tramontare al mondo per albeggiare in Dio. In questo tramonto c’era il dissolversi dell’interesse per le cose terrene, anche per quelle che lo avevano appassionato durante il lungo corso della sua vita, per cui aveva speso tutta la sua esistenza. Consapevole di essere giunto all’ultima tappa della sua vita, la voleva vivere in preparazione dell’Incontro. Quante volte, dopo il mio ingresso in Monastero, mi ripeteva che voleva fare il Noviziato insieme a me. Ma mentre il mio era per prepararmi alla vita consacrata nel Carmelo, il suo era in preparazione per il suo ingresso in cielo. Nelle sue lettere protestava sempre la sua ansia per l’Incontro, citando volentieri il “cupio dissolvi” di S. Paolo.
I nostri rapporti, dopo il mio ingresso al Carmelo, si intensificarono ed era un continuo parlare di Dio, una condivisione profonda degli aneliti dell’anima, ma era anche, da parte sua, una vigilanza attenta e senza sconti sui miei primi passi nel cammino della consacrazione. Venne anche a trovarmi in Monastero. Ricordo l’emozione fortissima di entrambi, in quell’incontro nel vecchio parlatorio buio, oltre la doppia grata, che separava i volti, ma non i cuori. Il suo parlare delle cose del cielo, la sua omelia, durante la celebrazione eucaristica, sulla nostra piccola Santa, Teresa Margherita del Cuore di Gesù, che conosceva bene. Non poté trattenersi a lungo, il viaggio era troppo lungo per la sua età e la commozione molto forte, perché mi voleva molto bene. Eravamo entrambi consapevoli che non ci saremmo più rivisti sulla terra. Ho impresso nel cuore l’ultimo fotogramma di quella visita, quando giunto alla soglia della porta per andare via, lo richiamai e gli mandai un bacio, soffiato sul palmo della mano. Nei suoi occhi brillarono due lacrime. Davanti a lui mi trattenni, ma appena ebbe varcato la porta, diedi anche alle mie il permesso di sgorgare, libere. Gli volevo molto bene, e gli dovevo molto.
Da quella volta, il nostro rapporto si mantenne esclusivamente epistolare, ma frequente fintanto che la salute glielo permise. Mi aggiornava sempre sul suo stato fisico, mentre, insieme, vivevamo il nostro Noviziato verso Dio. Un amico caro, anch’egli suo studente, lo raggiunse in ospedale durante l’ultima malattia. Mi tennero presente ricordandomi con l’affetto del cuore. Gli inviai un’ultima lettera, ricordo la scrissi a caratteri cubitali con un pennarello, perché i suoi occhi ormai deboli non si sforzassero nel leggerla. Seppi più tardi che non la ricevette mai. Amo pensare che sarà stato il mio augurio di “benvenuto”, quando ha aperto gli occhi nel Cuore di Dio, dove avrà potuto finalmente leggerla senza occhiali di sorta, in trasparenza di Spirito Santo, nell’amore che ci ha legato sulla terra e che ancora ci unisce nel cielo.
Sr. Angela dell’Amore Crocifisso
(Anna Maria Sini)
La terra promessa della metafisica dagli scritti di Cornelio Fabro
Gabriella Maesano
Il pensiero di Cornelio Fabro si snoda lungo un itinerario di scavo profondo che va dal concetto metafisico di essere per approdare a quello della libertà, attraverso la verità.
L’esigente analisi teoretica procede con una “navigazione”, per usare un termine platonico, che si imbatte negli scogli dei nuclei e plessi riguardanti: la causalità e la partecipazione, la percezione e il pensiero e il concetto intermedio di cogitativa, l’essere e l’esistente, il principio di immanenza nel pensiero moderno, il rischio della libertà dal punto di vista esistenziale-metafisico.
L’atteggiamento scientifico e umano del Filosofo è segnato rispettivamente da rigore acribico e da inquietudine interiore nella ricerca, senza sosta, della verità e del fondo, la libertà, del fondamento, l’essere.
I due poli che “si appartengono scambievolmente” e che costituiscono la metafisica fabriana sono “essere” e “libertà” (Cfr. Essere e Libertà, Corso di Filosofia Teoretica, A.A. 1967-68, Pro manuscripto, p. 5).
“Si comincia dall’essere per attingere la libertà, ma lo stesso senso dell’essere e il suo dilatarsi all’interno dell’uomo riguarda, si rivolge e non ha senso che rispetto alla libertà” (Ib.).
Per affrontare il problema dell’essere e della fondazione della libertà, che è l’elemento primo, originario dell’essere dell’uomo sono necessarie la speculazione e la contemplazione che hanno bisogno del “gusto” e dell’“amore del silenzio” e del raccoglimento. Il theorein è la ricerca della verità dell’ente e dell’atto dell’ente ed è il “ritorno” al fondamento, all’actus essendi. E il “filosofo essenziale” non può sottrarsi a quella ieratichemania, di cui parlano gli antichi, cioè quel “furore sacro” di sfuggire alla costrizione delle apparenze e di superare la determinatezza per arrivare al centro originario del problema della verità e della libertà.
Al pensiero antico e a quello medievale, lungo la linea Parmenide-San Tommaso, dobbiamo l’analisi del concetto di essere e al pensiero moderno dobbiamo l’istanza radicale della libertà. Quella libertà che, però, una volta che si è sganciata dal suo fondamento, che è l’essere, è approdata al relativismo, all’ateismo, al nichilismo.
Il pensiero cristiano aveva affrontato, nel rapporto con la grazia divina, il concetto di libertà come volontà libera.
La filosofia deve percorrere la strada che procede dall’essere alla libertà attraverso la riflessione teoretica che deve seguire il metodo speculativo-creativo: speculativo, perché è un cercare continuo il fondamento, l’essere oltre gli enti, l’unità oltre la molteplicità; creativo, perché vorrebbe dare “ragione” del differenziarsi della realtà nell’unità, dell’alternarsi nell’identità “per penetrare proprio al ‘centro’ della speculazione filosofica dove s’accende appunto il fuoco della ricerca ultima del principio” (Ib., p. 13). Fabro sostiene che il pensare non è un andare avanti, non è un percorso che offre sicurezza: “la filosofia è tremenda, rompe il nucleo di ogni sicurezza, getta il cercatore di verità nell’immenso mare dell’essere con tutta la sua fragilità e contingenza..., ma è qui per l’appunto che nasce il problema della libertà” (Ib., p. 15).
“Il primo atto originario – sottolinea il Filosofo di Flumignano – è un atto di riflessione radicale della libertà sull’intelligenza”. (C. Fabro, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, ed. Piemme, Casale Monferrato 2000, Aforisma 560, p. 344) e “fondare la libertà in qualcosa che non è libertà, per esempio l’intelligenza, è annientare la libertà” (Ib., Aforisma 565).
Nell’ultimo triennio accademico all’Università di Perugia, Fabro trattò il tema Analisi esistenziale della vita quotidiana, compiuta attraverso tre momenti:
1) L’essere nel mondo
2) L’essere nel corpo
3) L’essere nell’io
Mondo, corpo e io sono tre nuclei metafisici che non coincidono e che mai si separano.
Scrive Fabro, in modo icastico, nel Libro dell’esistenza, op. cit.:
“L’essere nel mondo, l’essere nel corpo, l’essere nell’io rimandano a quell’essere profondo dal quale sorgono continuamente il presentarsi del mondo, il presentarsi del corpo e l’avvertirsi dell’io” (Aforisma 1755). Quindi “L’io è nel mondo mediante il corpo, il corpo è nel mondo mediante l’io e l’io è nel mondo mediante il corpo e mediante il mondo” (Aforisma 1756) (Cfr. Op. cit., pp. 314-315).
Nella costituzione ultima e profonda dell’io si attesta, si incunea e si inserisce la libertà (Cfr. Essere e Libertà, p. 52).
Dagli abissi della libertà nasce la verità e dal centro della verità si muove la libertà, il cui impegno è sempre per la verità (Cfr. C. Fabro, Appunti di un itinerario, Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2011, pp. 20-21).
Con le seguenti parole, Fabro sintetizzava, nell’ultimo dei tre corsi accademici tenuti all’Università di Perugia, il suo itinerario filosofico: “la libertà è il pungolo continuo della mia missione ed anche della mia aspirazione come uomo”. “La libertà è l’unico principio nuovo che esiste nel reale, è causa nuova, è l’unica causa nuova che inizia per suo conto una nuova serie di eventi”, la libertà è, quindi, “creatività partecipata” (Cfr. Appunti di un itinerario, p. 20).
L’unico mezzo per arrivare al fondamento ultimo è la filosofia.
La filosofia è amore appassionato per la verità, aletheia, disvelamento, è ricerca ineludibile e inarrestabile del fondo del fondamento: il fondamento è l’essere, essere come atto di porsi e di darsi alla coscienza e il fondo è la libertà e come la libertà attinga al fondamento dell’essere e come l’essere attui il fondo della libertà è ciò che forma il compito costitutivo della filosofia (Cfr. Appunti, op. cit., p. 55).
Come Kant si domandava:
Cosa posso sapere? Cosa devo fare? Cosa posso sperare?
Così Fabro si pone i tre quesiti che richiedono risposte riguardanti: il conoscere, la libertà, la speranza della felicità. Tre problemi che anche il Filosofo Fabro affronta per rispondere all’interrogativo finale:
“Cos’è l’uomo?” (Cfr. Kant, Critica della ragione pura, Dottrina Trascendentale del metodo, cap. II, sez. II, a.805 e cfr. C. Fabro, Essere e Libertà, cit., p. 55).
Scrive Fabro in Appunti di un itinerario: “La riflessione speculativa non ha tanto la presunzione di scoprire il nuovo, quanto la passione di riconoscere nel quotidiano la realtà antica dell’Assoluto e dell’Eterno: e così essere sempre in cammino con una speranza” (Op. cit., p. 229).
L’uomo è un itinerante nel mondo in cerca di se stesso, è un indagatore del fondamento dell’essere per raggiungere il fondo del nostro essere originario che è la libertà.
La prima e ultima esigenza del filosofare è “il porsi nella disponibilità radicale, assoluta, incondizionata del manifestarsi dell’essere”. “Ed io – diceva il professore Fabro nelle sue lezioni – sono convinto che solo questo stato di coscienza è l’autentico stato della libertà” (Essere e Libertà, p. 56).
Il suo essere è il suo farsi, come il suo scegliersi di volta in volta in vista dell’ultima volta che è il conseguimento della verità nella felicità e il compimento della libertà nella verità. La libertà è inalienabile, è impenetrabile, è incomunicabile, è inaccessibile, è insondabile, è radicale. “La libertà è ciò che c’è di più intimo nel nostro intimo” (Ib., p. 108), intimius intimo meo, come dicono S. Agostino (Conf. III, 6-11) e San Tommaso (Summa Theol., I-II, q. 106-108): questo è il punto di partenza del percorso metafisico fabriano.
La libertà è il principio “aperiente”, ossia la chiave essenziale che apre tutti i chiavistelli della soggettività, della psiche, del carattere, dell’animo, delle passioni, dei desideri. Una libertà che ha il fondamento nell’actus essendi, nella Trascendenza, nell’Eterno.
Nel 1948 il filosofo scrive su L’Osservatore Romano un articolo su Il caso Sartre riconoscendo al filosofo francese sincerità e coerenza al principio di immanenza, radice del pensiero moderno, che lo ha condotto alla “negatività ontologica” dell’assurdo di una libertà individuale che “pretende di liquidare per sempre il problema dell’essere nei suoi valori personali, sociali e religiosi” (L’Osservatore Romano, 5-11-1948).
Con Sartre l’essere costituisce l’assurdo e la libertà è il nulla, è la coscienza che ha il potere di annullare l’essere: l’essere in sé è opaco e assurdo, l’essere per sé è coscienza, nulla e libertà negatrice dell’essere. Questo è l’esito logicamente conforme al principio di coscienza del pensiero moderno.
Con Fabro, invece, il pensiero si dipana lungo un percorso metafisico forte che parte dall’esse per arrivare alla verità, che salva attraverso la libertà, che dona senso e speranza all’uomo, come singolo davanti a Dio.
Fabro non ci ha lasciato un sistema filosofico. Diceva ai suoi studenti nella lezione del 6-12-1977:
“Il mio sistema è di non avere nessun sistema, il mio indirizzo di non avere nessun indirizzo, ma di andare al fondamento... Io non sono certo di nulla dal punto di vista filosofico; sono certo che devo cercare la verità e devo agire con libertà”.
Lungo la linea metafisica fabriana, che si origina dall’essere per arrivare al “fondo del fondamento” che è costituito dalla libertà, ci sono nodi tematici e problematici da cui si parte per operare una critica all’ateismo moderno e alla teologia progressista.
I concetti nodali sono: partecipazione, causalità, actus essendi, cogitativa, anima e Dio. L’altra linea teoretica che si può identificare, come connessa metafisicamente a quella che va dall’essere alla libertà, è quella che procede dal principio di immanenza che si fonda sul cogito-volo cartesiano all’esistente kierkegaardiano, al singolo che si pone davanti a Dio affermando nella conoscenza il principio di trascendenza. E fra Cartesio e Kierkegaard si staglia la grandiosa figura di San Tommaso, la cui filosofia è la sintesi geniale di immanenza e trascendenza, l’Aufhebung (sintesi e superamento) della partecipazione di Platone e della causalità di Aristotele.
Il punto iniziale dell’itinerario teoretico di Fabro è la tesi di laurea in Filosofia su L’oggettività del principio di causa e la critica di D. Hume (1931).
Nel 1931, nel campo della neoscolastica, il principio di causa si riduceva al principio leibniziano di ragione sufficiente e, mediante questo, al principio di contraddizione: la causa era la ragione sufficiente nell’ordine reale.
Il lavoro di ricerca permise al giovane Fabro l’avvicinamento al “castello incantato e agognato del pensiero”.
Fu un “sogno speculativo” a permettergli di trovare la “formula” radicale del principio di causa che esprime “la dipendenza reale, prima e radicale degli enti dall’Essere, cioè la creazione”. Rilesse la Summa Theologica, Prima Pars, q. 44, 1:
Utrum sit necessarium omne ens esse creatum a Deo e ... Necesse est dicere omne quocumque modo est, a Deo esse.
“Mi buttai – scrive Fabro nell’Autopresentazione del suo pensiero, richiestagli dall’Università di Perugia, a conclusione della sua attività accademica – sulle altre opere e riscontrando i luoghi similari del Commento alle Sentenze fino agli ultimi Quodlibeti (I, III, XV...) ed al mirabile opuscolo non compiuto De substantiis separatis, trovai che la nozione metafisica di partecipazione diventava sempre più esplicita e dominante non solo per la dimostrazione della creazione, ma anche per le altre forme di dipendenza radicale” (Cit. in Rosa Goglia, Cornelio Fabro, Profilo Biografico Cronologico Tematico, Edivi, Segni 2010, p. 43).
Nel 1934 Fabro scrive La difesa critica del principio di causa (Cfr. in C. Fabro, L’uomo e il rischio di Dio, Ed. Studium, Roma 1967, pp. 183-225). L’opera fu premiata dalla Pontificia Accademia di S. Tommaso d’Aquino come vincitrice del Concorso Internazionale bandito sul tema: “Il principio di causalità: origine psicologica, formulazione filosofica, valore necessario e universale”. Il lavoro fabriano venne pubblicato nel 1936 in Rivista di Filosofia Neoscolastica (pp. 102-141). Lo studio presenta per la prima volta la dialettica della “partecipazione come chiave ermeneutica dell’originalità del Tomismo” (Rosa Goglia, La novità metafisica in Cornelio Fabro, Ed. Marsilio, Venezia 2004, p. 15). Fabro precisa, nella ricerca sulla causalità, che “l’interpretazione tomistica dell’ens creato come plesso di partecipante e partecipato e composizione reale di essentia (contenuto formale) ed esse (atto reale) è stato, e rimane ancora, il tentativo più audace e consistente per superare l’opposizione di immanenza e trascendenza e di operare l’incontro e la complementarità fra la partecipazione orizzontale (immanenza, emanazione) e quella verticale (causalità, composizione)” (Cfr. C. Fabro, Esegesi tomistica, editrice Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, Premessa, p. XXXIII, (in cit. in R. Goglia, La novità metafisica in Cornelio Fabro, ed. Marsilio, Venezia 2004, p. 23).
Nel 1939 Fabro pubblica La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino, pietra miliare nello sviluppo della ricerca dell’esse come actus essendi, creatore dell’ente, cioè di una essenza che ha ricevuto l’essere, passando perciò dalla potenza all’atto. Il lavoro fabriano anticipa di tre anni lo studio di Étienne Gilson sull’esse tomistico.
Esce nel 1960 l’edizione francese di Partecipazione e Causalità e nel 1961 l’edizione italiana.
L’analisi condotta in queste due opere, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino e Partecipazione e Causalità, una nel segno del pensiero di San Tommaso, l’altra nel confronto col pensiero moderno, perviene alla diversità e insieme alla continuità della partecipazione predicamentale, in sé univoca (generi, specie, individui) con quella trascendentale che fonda l’analogia.
Fabro ha scoperto la novità teoretica rivoluzionaria di Tommaso mediante l’individuazione dell’esse come atto metafisico (primo-ultimo) emergente in grado di fondare la creazione: questo esse è il nucleo profondo della metafisica tomistica della partecipazione. San Tommaso recupera l’esse parmenideo facendolo rifluire nella partecipazione platonica e nella metafisica aristotelica dell’atto e della potenza (R. Goglia, La novità metafisica in Cornelio Fabro, op. cit., p. 17).
La partecipazione tomistica degli enti all’Essere è la causalità trascendentale, cioè la mozione divina, l’esse come actus essendi. “«Omnia participant ipsum esse, esse autem nihil participat»: l’espressione boeziana dal suo significato logico-formale è stata subito da San Tommaso elevata ad un significato metafisico, in quanto viene posta al centro del movimento dialettico, secondo il quale si costituisce la metafisica tomista (gradi di formalità)” (La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino, op. cit., p. 183). Si procede in San Tommaso ad una distinzione dei concetti di ente, essenza e actus essendi.
L’ente è ciò che è e ciò che costituisce l’ente è l’essenza. L’ente è il reale, ma è l’actus essendi che fa reale ogni cosa.
Su San Tommaso hanno avuto un influsso decisivo le sintesi di Boezio, del De Causis e dello Pseudo Dionigi: la prima per la partecipazione predicamentale, le altre due per la partecipazione trascendentale.
Lo studio della partecipazione induce Fabro a dedicarsi alla lettura del Prologo di San Tommaso al Prologo di San Giovanni in cui trova la giustificazione logica della IV via della Summa Theologica. Le “vie” della Summa vengono denominate “modi” nel Prologo. I “modi” sono quattro: ex auctoritate, ex aeternitate, ex dignitate, ex incomprehensibilitate veritatis.
La quarta “via” corrisponde nel Prologo al terzo “modo”, che è analizzato nell’opera fabriana L’uomo e il rischio di Dio (Cfr. p. 233).
Il terzo “modo” del Prologo gira attorno alla nozione di partecipazione e dà la chiave per l’interpretazione della IV “via” della Summa Theologica. Si legge, infatti: “Omne autem participans aliquid accipit id quod participat ab eo a quo participat, et quantum ad hoc id a quo participat est causa ipsius, sicut aër habet lumen participatum a sole qui est causa illuminationis ipsius. Sic igitur secundum Platonem summus Deus causa est omnibus immaterialibus substantiis, quo unaquaeque earum sit unum et bonum. Et hoc etiam Aristoteles posuit : quia, ut dicit, necesse est quod id quod est maxime ens et maxime verum sit causa essendi et veritatis omnibus aliis”(Ib. p. 235).
Nel 1941 Fabro pubblicò gli studi Fenomenologia della Percezione e Percezione e Pensiero.
Nella Fenomenologia della Percezione è condotta una ricerca, in modo analitico, del sorgere della coscienza nel pensiero moderno e nell’opera Percezione e Pensiero lo studio di scavo riguarda la struttura metafisica del conoscere e la scoperta della cogitativa nella gnoseologia tomista. È ad Averroè che dobbiamo la distinzione fra fantasia e cogitativa. San Tommaso accetta questa differenziazione e attribuisce come oggetto della fantasia la «forma» o struttura esteriore e riserva alla cogitativa la intentio o significato concreto delle cose (Cfr. Summa Theologica, I, q. 78, a. 4 in C. Fabro, L’Anima, Edivi, Segni 2005, p. 50 e p. 66).
Armando Rigobello, con molto acume, coglie il nesso metafisico tra le posizioni espresse in Partecipazione e Causalità e quelle gnoseologiche della Fenomenologia della Percezione. La fenomenologia della metafisica e la metafisica della fenomenologia costituiscono la base a una metafisica esistenziale e personalistica (R. Goglia, Profilo..., op. cit., p. 56).
Nel 1940 il Filosofo di Flumignano inizia il lavoro di indagine scientifica del pensiero di Kierkegaard, secondo quel metodo preciso che aveva appreso, negli anni 1935-1940, nel laboratorio di Biologia sotto la guida del professore Reverberi.
Lo studio di Kierkegaard continuerà fino al 1994 e l’ultima comunicazione fu tenuta a Modena il 27 maggio 1994 su Riflessioni esistenziali sul problema del male: Kierkegaard e San Tommaso.
Nella terza edizione del 1980 di Appunti di un itinerario così Fabro presenta il suo procedere filosofico:
“Tre mi sembrano le direzioni fondamentali di una ricerca... alla quale ho cercato di rimanere fedele nell’arco di quasi mezzo secolo:
1°) L’approfondimento della nozione metafisica di partecipazione;
2°) La determinazione dell’essenza metafisica del principio moderno d’immanenza come «ateismo radicale»;
3°) Il recupero del realismo classico-cristiano nell’esistenzialismo metafisico di Kierkegaard contro l’antropologismo ateo dell’immanenza moderna” (Op. cit., p. 127).
Sulla base della scoperta dell’actus essendi, conseguita attraverso l’analisi approfondita e geniale dei concetti di causalità e partecipazione, Fabro affronta i temi fondamentali della metafisica, Dio e l’anima, Dio actus essendi et creator e l’anima forma substantialis del corpo facendo riferimento a San Tommaso e ad Aristotele.
Nella Metafisica lo Stagirita afferma che Dio tutto muove come “Oggetto d’amore”, cioè Dio è amato, ma non ama e nell’Etica a Eudemo puntualizza che nell’anima il primo movimento del volere non è dato dal caso, ma viene come per un “segreto istinto” da Dio stesso. È a questo testo che San Tommaso si riferisce per dimostrare che Dio è il primo principio dell’attuarsi della nostra volontà.
Scrive Fabro in L’Anima: sull’anima e su Dio si è “affaticato senza tregua il pensiero umano” (Op. cit., Edivi, Segni 2005, p. 107). L’anima è la forma sussistente che ha l’atto di essere “per sé” e lo tiene a sé necessariamente unito. L’anima riceve l’atto di essere in sé per prima e poi lo comunica al corpo (Ib., p. 125).
L’origine dell’anima, secondo San Tommaso, è per via di creazione e direttamente da Dio, unica causa creatrice.
Ma la conoscenza dell’anima, scrive San Tommaso, presenta una «massima difficoltà»: “cognoscere quid sit anima difficillimum est” (De Veritate, X, 8 ad 8, cit. in L’Anima, p. 108). Le funzioni apprensive e le attività tendenziali dell’anima, al cui apice stanno l’intelletto e la volontà libera, si trovano collegate da “una doppia dialettica”: soggetto-oggetto, soggetto-Primo Principio.
“La volontà è l’appetito o inclinazione razionale, perciò suppone l’atto dell’intelletto che le presenta l’oggetto”, ma è la volontà che muove l’intelletto (Cfr. L’Anima, p. 95). Dice San Tommaso: “voluntas movet intellectum quantum exercitium actus” (I-II, q.9, a. 1 ad 3). C’è, quindi, una trascendenza dinamica della volontà sull’intelletto. Nell’esercizio della sua libertà la volontà muove se stessa e ha per oggetto il fine e la felicità solo come causa seconda. Nel primo momento la volontà come principio finito, che passa dalla potenza all’atto, ha bisogno per attuarsi, rispetto al fine, di essere mossa da Dio, causa prima. San Tommaso riprende il pensiero di Aristotele espresso nell’Etica a Eudemo (libro VIII, 1248 a), detto dai medievali Liber de bona fortuna, (Cfr. L’Anima, cit., pp. 95-96): Aristotele si chiede quale sia il principio del movimento nell’anima e conclude che
“... in realtà è evidente: come nell’universo è Dio, così accade anche nell’anima. Infatti è il divino che è in noi che in qualche modo muove tutto”.
Fabro, nell’opera intitolata Dio. Introduzione al problema teologico, afferma che “il problema di Dio è inevitabile e la sua urgenza non muta per mutar di secoli e di eventi” (Op. cit., Edivi, Segni 2007, p. 9). Il problema di Dio segue qualsiasi uomo e “lo raggiunge dovunque con la sua «richiesta»” (Ib.).
L’opera fabriana offre all’uomo in ricerca della verità e della libertà, e quindi dell’essere, l’itinerario per giungere a Dio, un itinerario che comporta inquietudine e incertezze, perché l’esistenza di Dio non è evidente all’uomo, ma lo interpella. Se l’uomo non è costante nella ricerca del fondamento dell’essere, sprofonda nella negazione della verità dell’essere e quindi di Dio.
Nel lavoro su Dio Fabro inizia l’analisi dell’ateismo moderno e contemporaneo, la cui indagine continuerà nell’opera poderosa dell’Introduzione all’ateismo moderno del 1964. Ma già nel 1959 Padre Fabro, come voleva essere chiamato il grande Filosofo, aveva fondato il primo Istituto di Storia dell’Ateismo, presso la Pontificia Università Urbaniana.
Fabro studia il pensiero moderno con acutezza di analisi perché interessato alla centralità della libertà ed esamina la filosofia di Cartesio, Hume, Kant, Hegel, Feuerbach, Marx, Nietzsche, Heidegger, Sartre.
Su questa approfondita base di storia della filosofia moderna e contemporanea si fonda l’individuazione della fonte dell’ateismo moderno radicato sul cogito ergo sum cartesiano, un cogito che è un volo cogitare che scardina al fondamento l’esse in quanto il sum ergo cogito è divenuto un cogito ergo sum e così incipit tragoedia hominis moderni, cioè la corsa della modernità verso l’ateismo e il nichilismo (Cfr. Appunti di un itinerario, pp. 167-177).
Il pensiero moderno è essenzialmente ateo perché fondato sul principio di immanenza che ha condotto l’essere all’atto di coscienza portando all’unificazione di cogito e volo così che ogni realtà si risolve, a diversi livelli, in realtà di coscienza.
“Il passo – scrive Fabro – quindi dalla metafisica tomistica della partecipazione alla flessione dell’ateismo moderno mi è parso inevitabile” (Ib., p. 162).
“Il pensiero moderno è essenzialmente ateo, perché fondato sul principio d’immanenza fin dall’inizio così che tocca riconoscere all’ateismo delle filosofie contemporanee la legittimità di rivendicare per sé la coerenza del cogito” (Ib., pp. 167-168).
Attraverso il pensiero di Kierkegaard si ritrova la strada del realismo cristiano fondato sull’actus essendi, si ritrova il “sentiero interrotto” della filosofia della trascendenza. Allora “nulla impedisce di entrare a viso aperto in contatto col mondo che ci accoglie, nella tensione crescente della tecnica e nella dialettica con gli altri uomini, nei conflitti dell’etica e nelle oscillazioni della storia, negli enigmi della natura e nelle istanze della libertà” (Ib., p. 177).
Fabro nel 1940 lesse Il concetto dell’angoscia di Kierkegaard e si trovò di fronte ad “un genio speculativo originale e di una profonda coscienza religiosa” (Ib., p. 179). L’incontro con il pensiero del grande filosofo danese continuò attraverso Briciole di filosofia, la Postilla alle Briciole e i Papirer ed è stato decisivo per il Nostro pensatore friulano nella liberazione del “complesso d’inferiorità” verso la baraonda dei sistemi a getto continuo della filosofia moderna e contemporanea “rilevando” il loro sottobosco “antiumano prima che anticristiano” (Ib., p. 181).
L’opera kierkegaardiana discute di concetti e problemi di fondo attraverso “esperimenti esistenziali”. “È realista – scrive Fabro – senza cadere nel dogmatismo; è dialettica, senza cadere nello scetticismo; è fenomenologica d’intuizione eccezionale, senza cadere nel nichilismo” (Ib., p. 182).
In Kierkegaard la ricerca della verità non è mai chiusa e l’impegno della libertà da parte del “singolo” non è mai esaurito. L’uomo diventa se stesso quando, consapevole della propria finitezza, “si fonda in Dio” (Ib., p. 183) e riconosce che solo un Dio Onnipotente poteva donare la libertà alla sua creatura (Cfr. S. Kierkegaard, Diario, 1266, trad. C. Fabro, vol. III, ed. Morcelliana, Brescia 1980).
Il percorso fabriano, che attraversa il mare tempestoso della ricerca della verità e della libertà, lascia alla riflessione dell’uomo di oggi, Ulisse alla ricerca di nuovi approdi (Cfr. Aforisma 1 in Libro dell’esistenza..., op. cit., p. 23), la consapevolezza della complessità di ogni realtà in sé originale e non riducibile a nessun paradigma e la responsabilità di fronte ad essa.
“Dall’atomo fino alle galassie, dai globuli rossi fino al completo organismo, dalle sensazioni immediate fino alle più geniali intuizioni artistiche, scientifiche, filosofiche, dalle più elementari necessità dell’aria, dell’acqua e del cibo per vivere fino alle supreme aspirazioni dell’ultima testimonianza per la verità e la libertà”, tutto ci testimonia l’essere e la libertà, ma la libertà autentica “diventa comunicabile e comunicante”, “mediante il suo rapporto all’Assoluto” (Ib., pp. 188-189).
Cornelio Fabro, nel riepilogare la sua ricerca teoretica Ad meipsum, scrive: “L’indugiare del passato che non ritorna, il ritornare all’opera e ai giorni ormai conclusi, il cercare e il ricercare tra le foglie cadute all’autunno della vita, sembra quasi un compito anacronistico come quello di riprendere un tempo che non è più; una fatica quasi inutile perché il tempo dell’oggi, divenuto ormai precario, consuma giorno dopo giorno la possibilità della vita” (...) “Ma l’incompiutezza del cammino illumina a suo modo come la filosofia, e sul piano della riflessione, soltanto la filosofia può portare avanti il problema essenziale – già avvertito in Grecia nei secoli prima di Cristo – che è la ricerca della verità per la libertà e la difesa della libertà per la verità” (Cfr. Appunti di un itinerario, Prima Redazione dell’otto aprile 1980, pp. 27-28).
Questa è la summa del pensiero fabriano.
Gli ultimi argomenti che dovevano essere completati, e rimasti sul suo tavolo di lavoro, nell’“occaso” della sua esistenza dedicata, con rigore tetragono e adamantina onestà intellettuale, alla verità e alla libertà, sono stati il deismo inglese e Gesù Cristo nel pensiero moderno.
Nel pensiero fabriano non ci sono conclusioni perché la sua metafisica non è un hortus conclusus, ma è un cammino, è un pellegrinaggio verso “la terra promessa” dell’essere e della libertà. Come l’uomo è tale perché è in cerca della speranza, così il territorio della metafisica è terra “promessa” perché offre la speranza a colui che ricerca in libertà, in umiltà e fiducia la verità che salva e la felicità sempiterna.
La filosofia Di Cornelio Fabro è radicata sull’osservazione scientifica della realtà per poi ascendere alla trascendenza e quindi ai problemi fondanti dell’essere e della libertà nella verità sempre cercata senza condizionamenti, sempre amata e con parresia testimoniata. La sua ricerca su Gesù Cristo, Verità e Amore, Logos che si è fatto carne per la salvezza dell’uomo è stata interrotta dalla sua morte, ma l’eredità spirituale, culturale, umana di Cornelio Fabro rimarrà per tutti coloro che si lasciano affascinare dalla filosofia, che va alla faticosa ricerca del fondamento, una luce che illumina il cammino di vita personale verso l’Assoluto e il gaudio eterno.
Gabriella Maesano
Contatti con papi e cardinali
S.S. Paolo VI
Al venerato Professore Cornelio Fabro,
religioso delle Sacre Stigmate,
desideriamo esprimere la nostra compiacenza e la nostra riconoscenza per il cortese e devoto omaggio del suo nuovo lavoro «Introduzione all’ateismo moderno». La gravità e l’attualità del tema e la serietà della trattazione ci invitano a prendere visione dell’opera; ma, nella fiducia che essa sia per riuscire feconda di salutari pensieri agli uomini del nostro tempo e vantaggiosa alla gloria di Dio, fin d’ora mandiamo a chi ne ha curato la composizione e la stampa la nostra benedizione.
* * *
Card. Cassidy
SEGRETARIA DI STATO
PRIMA SEZIONE AFFARI GENERALI
Reverendo Padre,
Il Sommo Pontefice ha accolto con vivo interesse il volume «L’enigma Rosmini – Appunti d’archivio per la storia dei processi», recentemente da Lei pubblicato, ed a Lui gentilmente offerto in omaggio in apposita elegante rilegatura.
Il Santo Padre desidera ringraziarLa di cuore per il dono dell’imponente ed accurata documentazione, valido contributo per la miglior conoscenza della Personalità e della spiritualità dell’illustre Pensatore.
Sua Santità, esprimendo altresì stima e compiacimento per la lunga ed appassionata fatica della Paternità Vostra a servizio della Verità e della Chiesa, volentieri Le rinnova la propiziatrice Benedizione Apostolica, pegno di copiosi ed eletti favori celesti.
Profitto della circostanza per confermarmi con sensi di distinta stima
dev.mo nel Signore
* * *
Card. Journet
Mon bien révérend Père
Un ami domenicane, professeur à l’Angelicum, vien de me montrer les articles du Divus Thomas où vous examinez avec la profondeur qui vu est coutumiere la doctrine de Karl Rahner.
Comment vous en remercier?
Je tiens K. R. comme un de nos contemporains qui a le plus contribué à faire dévier la teologie vers la gnose.
Pensez-vous publier en volume, prochainement, vos études du Divus Thomas?
Veuillez croire, bien révérend Père a mes sentiments de gratitude pour l’immense effort philosophique et théologique que vous avez accompli.
* * *
Card. König
DER ERZBISCHOF VON WIEN
Caro direttore,
Cordiali grazie per il Suo Libro «Introduzione all’ateismo moderno», il quale mi ha fatto grande piacere. Inoltre Le posso comunicare che il Santissimo Padre, in occasione dell’ultima udienza, mi ha parlato di questo libro e si è dimostrato molto riconoscente concernente quest’opera. Durante il mio prossimo soggiorno a Roma mi metterò in relazione con Lei, onde poter discutere la futura collaborazione.
Saluti cordiali di benedizione
Testimonianze di professori
Danilo Castellano
Dopo le parole del prof. Gabriele De Rosa debbo dire che ritengo che p. Fabro sia stato molto attento ai suoi tempi, ai nostri tempi; sia stato anzi molto più attento alla storia di quanto apparentemente non sembri… Voglio dire che il prof. De Rosa ‘oggi’ ci ha dato una testimonianza personale dell’attenzione che P. F. prestava alla storia, molto più di quanto possiamo immaginare, leggendo le sue Opere teoretiche: in realtà P. F. era convinto –e lo scrive apertamente nella breve Prefazione di un’opera pubblicata nel 1978 (Tra Kierkegaard e Marx. Per una definizione dell’esistenza, Logos 1978), mi permetto di richiamare l’attenzione sulla data, perché quegli anni sono stati anni drammatici per la Cristianità italiana e non solo italiana, che la filosofia fosse e sia un’ attività che serve ad orientare l’uomo per non disperdere se stessi nel turbinio della storia, nel turbinio del contingente, nella confusione e nella temporalità: la filosofia deve offrire l’aggancio metafisico all’esistenza e alla libertà…
Fabro, poi, mi si consenta di chiudere l’intervento con questa testimonianza, o meglio con questa osservazione che tutti coloro che lo hanno conosciuto possono fare, è stato estremamente coerente. Ha dato testimonianza della libertà responsabile. Ha dato, cioè, testimonianza della libertà della filosofia e ha pagato questa libertà. Era consapevole –intendiamoci!– di dover pagare questa libertà e le conseguenti scelte operate. Sapeva di rinunciare ai vantaggi del mondo, anche a quelli legittimi e buoni. Si preparava alla «grande sorpresa», come soleva esprimersi. Questa sorpresa era l’incontro con Dio di fronte al quale ognuno di noi e, anche F., non può che presentarsi con la responsabilità della decisione di fondo della propria vita e con quella con le singole scelte operate. Ma P. F. era consapevole, la sua umiltà non era farisaica!, di essersi preparato a questo incontro e, per questo, gli era stata di aiuto anche la filosofia come testimonianza della verità.
* * *
Lluis Clavell
Ringrazio gli organizzatori di questo stupendo Convegno, dico stupendo perché trovo molto bello incontrarci amici comuni, discepoli di P. Fabro, molti di noi non ci conoscevamo, avevamo sentito parlare da P. Fabro di diverse persone ed ora siamo qui riuniti. Si è detto che Fabro non ha fondato una scuola ma ha lasciato certamente una schiera di discepoli… Mi auspico che si possano fare degli incontri periodici affinché questo diventi il primo di una lunga serie.
Secondo punto, voglio testimoniare qui il grande aiuto di P. Fabro alla nascita del Pontificio Ateneo della S. Croce.
Molti di noi andavamo a trovarlo spesso con il mio maestro, a sua volta discepolo anche di P. Fabro, don Carlo Cardona, scomparso quasi tre anni fa; andavo a trovarlo nella stanza della parrocchia verso le tre di pomeriggio di domenica; erano incontri consueti e P. Fabro ci diceva : «dovete fare qualcosa, dovete fare qualcosa!» e quindi formò il primo gruppo di persone, tra cui don Carlos Cardona, già menzionato, anche don Sanguineti, mons. Ocariz, Vicario Generale della prelatura dell’Opus Dei e diversi altri, fu veramente di grande aiuto ed incoraggiamento.
Ancora qualche settimana prima della morte egli ripeteva ciò che ci aveva detto tante volte: «studiate, studiate, studiate molto, perché così si potrà fare un grande bene per la Chiesa…»
Dopo questa introduzione farò un intervento molto breve, vorrei sottolineare semplicemente quanto mi ha aiutato nella mia vita teoretica e spirituale nella concezione di Dio, il binomio “Essere e Dio”; talvolta molte persone trovano difficoltà in questa congiunzione, perché l’Essere sembra troppo astratto. Invece penso che Fabro abbia dato una visione dell’essere che permette di capire meglio Dio. Concretamente direi che la distinzione tra Essere in atto e Essere come atto, probabilmente il prof. Dalledonne ci parlerà anche di questo, illustrando meglio di me, per dire che questo punto è importantissimo.
Con S. Tommaso, C. Fabro all’essenza antepone lo Esse come atto attuante primo, ed ecco che si avverte un’armonia tra un Dio ch’è atto, pienezza di essere, fondamento del bene e prima nozione dell’intelligenza umana. Questo C. Fabro lo aveva già intuito nei suoi studi sulla Partecipazione e lo ha poi profondamente sviluppato negli studi sulla Libertà.
* * *
Dario Composta
Sono lieto di essere qui a commemorare p. Cornelio Fabro, sia perché formato nella sua gioventù nella mia Verona, sia per la profonda amicizia che mi lega a lui e alla sua Congregazione dei Padri Stimmatini; è doveroso, pertanto, ringraziare gli organizzatori, ed auspico che il pensiero forte del filosofo friulano sia conosciuto ed apprezzato anche da noi in Italia, anche se la sorte lo ha colpito, evangelicamente «nemo profeta in patria sua!…». Vorrei confermare qualche rapido dato biografico con un ricordo personale che risale ad una riunione che si tenne nella sala dei Congressi della Biblioteca Casanatense negli anni 1975-76 e che fu onorata da uomini insigni… Dopo il saluto di mons. Piolanti, P. Fabro tenne la sua relazione in stretta aderenza con il pensiero tomista; seguirono diverse interpellanze sul rapporto fra intelletto e volontà per una fondazione antropologica della libertà. Alcuni avrebbero usato il verbo “preferire” piuttosto che “scegliere” in modo da salvare un certo determinismo estrinseco della libertà; altri notarono subito lo spostamento dell’asse speculativo dal forte pensiero metafisico a quello esistenzialistico…Dopo infuocata discussione, si concluse in fretta la riunione e tutto finì senza un’intesa; né mai apparve sulla Rivista ufficiale dell’Accademia Doctor Communis un sia pur breve cenno sull’evento. Ho voluto rievocare questo ricordo perché sin d’allora negli ambenti romani si diffuse la convinzione che P. F. volesse rileggere i test tomistici riguardante il problema della libertà, alla luce della filosofia moderna. E non era solo una convinzione di alcuni docenti bene informati; si trattava di una convinzione dello stesso professore di Perugia. Perciò quando nel 1983 pubblicò il suo grande saggio Riflessioni sulla libertà si capì in modo dispiegato la sua convinzione, come egli stesso confessa nella Premessa: «Alla verità della libertà ch’è libertà della verità… attendono le seguenti riflessioni in forma d umile proposta, non come traguardo di arrivo, ma come punto di partenza per sfuggire al risucchio incombente del nulla e dissipare le folte ombre dell’enigma della morte» (p.XI).
In questa confessione appare tutta la grandezza ed umanità del grande friulano: pronto ad accendersi nella disputa, pronto a calmarsi e dimenticare, per restare amico, sincero ed affettuoso. L’episodio narrato e la sua confessione in apertura del volume ci permettono di intravedere in lui l’ansia apostolica del sacerdote che vive intensamente il suo tempo guardandolo attraverso il filtro della filosofia e non della cronaca. Egli sapeva bene quale prezzo il mondo occidentale stesse pagando avviandosi ad una specie di ebbrezza bacchica per assaporare tutte le libertà e i libertinaggi sotto il nome di democrazia…
P. F. riserba un posto privilegiato a Kierkegaard per il suo Cristianesimo radicale e per la sua concezione della libertà, intesa come decisione per Dio. Ora si comprende perché egli durante l’episodio sopra narrato, si fosse alterato quando alcuni lo accusarono di essersi spinto troppo in avanti a scapito di una fedeltà al tomismo. Ma s’impone una domanda: fino a che punto egli si è spinto in quella direzione? Sicuramente le sue letture minuziose e sottili della filosofia moderna avevano suscitato in lui un acuto senso dell’esistenza della libertà, di qui la sua propensione ad accogliere anche da tali fonti tutto ciò che a suo parere avrebbe potuto arricchire il pensiero cristiano e renderlo attuale. Come si legge alla fine del suo volume s’intravede in lui la fierezza militante che entra nella tana dell’avversario strappandogli dalle mani le sue armi. Quali armi? Quelle della presunta radicale libertà deviata ed atea (p. 291 ss.); quelle del «mistero del male» o del peccato di fronte alla maestà di Dio (p. 315 ss). La decantata libertà delle filosofie odierne conduce al suicidio individuale, sociale e… diciamolo francamente, noi qui, nazionale…
Ma c’è un’altra risposta che viene dalla redenzione e dalla grazia. L’”assurdo del mondo” ha una risposta: la rivolta, non quella manipolata e sciocca degli adolescenti che chiedono l’”okkupazione” delle aule scolastiche, ma la contestazione della fede. «O credere o disperare» (p. 342). Perciò se la filosofia è incapace di risolvere la tragica possibilità della libertà, una risposta ci è data dal Vangelo. Questo è il P. F. poco noto: mai sconcertato, ma anzi attento uditore delle bestemmie degli atei, ma anche centurione implacabile della Fede.
* * *
Andrea Dalledonne
E’ superfluo rilevare con quale dolore e con quale «nostalgia di riprendere altrove il dialogo interrotto» –per dirla con un’espressione del Fabro stesso– si tenta qui un minimo discorso sull’esse ut actus del tomismo essenziale di questo sommo filosofo.
…Sull’emergenza metafisica dell’esse ut actus sopra il pensiero umano è illuminante un testo di Fabro: «Il pensiero… non si chiude in un circolo (o movimento circolare) nella tensione di materia e forma…, di particolare universale…, di coscienza e autocoscienza (immanentismo), ma rimane sempre aperto in un movimento ascensionale elicoidale, di atto in atto: dagli atti formali nell’essenza, prima accidentali e poi sostanziali, per fondarsi poi sull’esse partecipato trascendentale nell’ente di ogni forma e natura, fino all’Esse per essentiam».
Se è spirituale l’atto teoretico con cui apprendiamo l’ens e co-apprendiamo l’esse come atto dell’ens, ancora più profondamente spirituale, perché libero, è l’atto con cui riconosciamo all’esse la sua incomparabile qualità di fondamento primo-ultimo della realtà fino a vedere, nell’assolutezza metafisica di esso il costitutivo proprio di Dio… E Dio non è propriamente ens perché, come precisa S. Tommaso in una delle sue opere più mature, la Causa prima trascende ogni ente in quanto è l’Esse infinito.
Ne scaturisce l’alternativa ineludibile: o riconoscimento del primato metafisico dell’esse sopra ogni altro atto, o nichilismo di per sé inclusivo della disperazione...
S’illumina così, la triplice rottura d’indole anzitutto spirituale, compiuta dal Fabro: nei riguardi del formalismo scolastico, dimentico dell’esse ut actus; nei riguardi dell’umanesimo immanentistico, come rimane comprovato dall’Introduzione all’ateismo moderno; nei riguardi del neomodernismo che è il più rovinoso degli errori contemporanei, perché pedissequo dell’umanesimo immanentistico e mascherato con qualche termine di origine cristiana.
Ma questa triplice rottura si fonda specialmente sull’autentica apertura all’autentico esse biblico-tomistico.
Mi sento obbligato a chiedere perdono dell’evidente insufficienza di queste note con cui è stato detto troppo poco sull’intensiva esegesi tomistica di C. F.: cioè di colui che ha posto in luce l’esse tomistico in un modo assolutamente unico; che ha dimostrato l’oggettiva convergenza del meglio di Kierkegaard con il tomismo essenziale; che ha criticato l’umanesimo immanentistico e neomodernistico con la massima radicalità teoretica.
Per queste ragioni Cornelio Fabro ha compiuto un’opera molto simile a quella di S. Tommaso.
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Augusto del Noce
Caro Padre Fabro,
come saprai, ho lasciato quest’anno per limiti di età l’insegnamento. Passando in rassegna i ricordi e le figure dei filosofi che ho incontrato, mi sono fermato nella tua; e non penserai che sia adulazione, se ti dico che vedo in te il maggior filosofo che abbia oggi l’Italia.
È questo il mio giudizio da molti anni, ma mi piace dirtelo in questa occasione in cui mi licenzio dall’università. Nel momento potrei aggiungere molte altre cose, ma preferisco non farlo, perché so quanto poco tu ami i complimenti.
Conto però di mettermi a studiare seriamente il tomismo sotto la guida delle tue opere.
I migliori auguri per il Santo Natale e per il nuovo anno. E permettimi un abbraccio.
Tuo affettuosissimo
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Giuseppe Mario Pizzuti
La forza e il fascino della personalità di Fabro lasciavano il segno in chiunque l’avvicinasse: egli era perfettamente consapevole del valore e dell’inattualità della sua opera scientifica, ma non ha desistito nemmeno un istante dal combattere per la verità, accettando nello stesso tempo con grande serenità di essere isolato, emarginato; senza darsene le arie, F. era perfettamente consapevole che i risultati del suo lavoro mettevano oggettivamente in discussione, non soltanto nella cultura filosofica contemporanea, ma anche nella Chiesa post-conciliare, posizioni di fondo generalmente ritenute acquisite e ampliamente diffuse dai mass-media, anche cattolici; pochissimi al pari di lui si sono dimostrati altrettanto liberi di fronte alle mode degli ambienti intellettuali e di quelli ecclesiastici.
Formulata con estremo –talvolta “disumano”– rigore scientifico la sua “contestazione” culturale instaurava con profondità teoretica e incisività di documentazione storiografica, un’autentica alternativa essenziale allo storicismo del pensiero moderno e alla sua antimetafisica, a cui F. ha contrapposto due poderose obiezioni, alle quali ancora nessuno ha dato risposta…
Oggi che la sua parabola terrena si è conclusa, vorrei accennare ad un aspetto particolare della personalità di F.: homo Dei nel senso più completo e profondo (bisognerà pure che un giorno ci si decida a studiare le sue opere ascetico-mistiche, ben poco conosciute e citate, rispetto alle grandi opere filosofiche, ma nelle quali –mi scriveva nella Domenica delle Palme 1991– «C’è come i “discorsi edificanti” per Kierkegaard, il cantuccio più importante della mia anima», F. si era formato in quella assoluta probità intellettuale, a cui plasma la ricerca scientifica quando sia rigorosa e onesta; la finissima sensibilità che ne era scaturita spesso lo metteva a disagio di fronte a forme di grettezza spirituale e umana che gli capitava di riscontrare in ambienti ecclesiastici; tralasciando il discorso sulla complessità e sulla sagacia della diagnosi che P. F. dava della situazione ecclesiale, c’è da rilevare che a lui (come d’altronde per altre grandi e sofferte personalità intellettuali della Chiesa) i riconoscimenti decisivi, che l’hanno imposto all’attenzione dello stesso mondo cattolico ed ecclesiastico sono venuti dall’ambiente dell’alta cultura universitaria laica, che pur dandogli atto del suo valore scientifico non mancò di blandirlo pur di ottenere da lui –nel clima degli anni Cinquanta– mutamenti di campo, evidentemente non conoscendo ancora chi fosse Cornelio Fabro; basti pensare alla vicenda estenuante, da lui narrata fin nei particolari, del concorso a professore ordinario.
Nell’ambito dell’alta cultura laica F. s’imponeva con lo straordinario prestigio della sua cultura e della sua opera scientifica: nell’ambito del mondo universitario, non erano molti i colleghi che potevano misurarsi con l’altezza e la vastità della sua cultura, ma erano restii a dargliene atto; non potrò mai dimenticare le vicende estremamente interessanti e sintomatiche dei reali equilibri dell’Università italiana, legate all’organizzazione delle celebrazioni ufficiali dello Stato italiano, da tenersi in Campidoglio, alla presenza del Capo dello Stato, del VII Centenario della morte di S. Tommaso d’Aquino; chi scrive ebbe l’opportunità di viverle in prima persona, all’interno di ambedue le parti, e può testimoniare che se alla fine di un prolungato e tenacissimo braccio di ferro fu scelto Fabro, come relatore ufficiale, fu unicamente perché il suo indiscutibile superiore prestigio scientifico s’impose nettamente sulle obiezioni di chi avrebbe preferito, non senza ragioni un laico; non a caso, quella mattina del 7 marzo 1974 F. giunse in Campidoglio accompagnato da Ugo Spirito. E proprio la storia dei rapporti di F. con Spirito, ma anche con Abbagnano, per citare solo qualche nome, offrirebbe abbondante materia di documentazione circa l’effettivo ruolo e la grandissima stima che godeva in ambienti certamente non cattolici…
Queste righe intendono essere non un elogio, che egli avrebbe certamente proibito, ma unicamente una doverosa ed affettuosa testimonianza; F. non avrebbe mai, non dico cercato, ma nemmeno accettato consensi acritici sulla sua opera, di cui egli per primo coglieva con molta lucidità il valore e i limiti: ancor più che nelle lezioni date a voce o tramite le sue opere, il magistero di F. ha raggiunto il vertice scientifico e pedagogico nella discussione tipica della sua stessa opera; personalmente, pur essendogli debitore di lezioni decisive di filosofia e di vita, ritengo di aver imparato da lui soprattutto osservandolo nel modo di accettare e di discutere le obiezioni che gli esponevo sull’uno o sull’altro punto del suo pensiero, sull’una o l’altra posizione che prendeva in una discussione pubblica, in una polemica sulla stampa: F. era un polemista brillante, arguto, che forte del suo immenso corredo culturale, prima giocava con l’avversario poi gli piombava addosso, mettendolo con le spalle al muro, e infine era capace di consolarlo, trovando il modo di dargli ragione su aspetti del tutto marginali: proprio perché era sicuro di vincere, non aveva alcun interesse a stravincere…
Ma precisamente per questa sua profonda impressionante onestà intellettuale, egli legava a sé con vincoli fortissimi quanti, aldilà del rapporto universitario idealmente formavano la sua scuola: essere un ex-alunno di P. F. significa essere caratterizzato, ciascuno con l’impronta della sua personalità, da tratti inconfondibili del magistero scientifico e umano del Maestro; è un’eredità che non deve andare perduta, è un filo di comunione che non deve essere fatto cadere, quello che numerosissimi allievi di F. rappresentano –con la loro testimonianza nelle Università, nella scuola, nelle professioni più alte e più varie– nella cultura filosofica e nella comunità ecclesiale italiana. Le traiettorie verso cui, pur tra mille difficoltà e vivaci conflittualità, si stanno avviando in questo scorcio di secolo la Chiesa e la società italiana possono restituire una grande, bruciante attualità alle posizioni, alle intuizioni, alle diagnosi di Fabro: nel segno della libertà per la verità, che è in definitiva la libertà qua nos Christus donavit, chi da F. ha ricevuto molto, nel ricordo del Maestro è chiamato a dare molto, nella forma più alta della carità che è la caritas intellectualis.
(Brani tratti da "Innamorato della libertà. Ricordo di Padre Cornelio Fabro", Centro Italiano di Studi Kierkegaardiani, Potenza, maggio 1995 pp. 15-20)
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Gabriele De Rosa
Sono qui con i miei ricordi di P. Fabro, di Fabro sacerdote con i suoi numi tutelari, S. Tommaso e Kierkegaard, di P. Fabro uomo di tutte le ansie metafisiche ed esistenziali che possono nascere in un cristiano che non smise mai di guardare, con occhio fermo, la ‘lampada meravigliosa’ della libertà; di P. Fabro affascinato insistentemente dall’intima convinzione che ci sarebbe stato un giorno l’incontro con l’Essere proprio, posto fuori dalla dialettica del tempo. Ho già scritto più volte come nacque la mia lunga amicizia con P. Fabro, più di 30 anni, da quando, dopo la scomparsa di don Giuseppe De Luca, entrai in rapporto con lui…
Se volessi individuare l’incontro con P. Fabro che più è infisso nella mia memoria, l’incontro che stabilì una forte corrente di simpatia tra noi, di modo che, anche quando accordo non c’era, niente turbava la nostra amicizia, ricorderei il lungo viaggio, anche se durò poche ore, che facemmo agli scavi di Pompei l’11 luglio 1966. A questo viaggio Fabro dedicò alcune delle sue pagine autobiografiche, non prive di una certa solennità…
Io mi sforzavo di condurre Fabro a riflettere su quel passato, su quella cultura e civiltà che si confessavano ancora attraverso pitture, colonne, templi, ville. Fabro non ascoltava, egli aveva visto i resti dei corpi pietrificati dalla lava del Vesuvio, e quella vista si accompagnò in lui con una profonda sensazione che tutto il carico dei nostri pensieri e dei nostri affanni quotidiani si dissolvesse. Fu per Fabro come se si fosse sciolto, per la prima volta ‘il gomitolo della vita’ e ne avesse visto in trasparenza il tessuto essenziale. «Ho sentito dentro di me –scriveva Fabro in questo suo straordinario e unico racconto– quasi un sottile piacere, ho avuto l’impressione del varco aperto sull’Infinito, quella di essere finalmente uscito nel mare che non ha confini e di avvertire quella vita che muore la morte per incontrare quell’Essere che è solum mio, l’attesa dell’eternità».
Dopo aver letto il racconto di Fabro sulla morte a Pompei, annotavo nel mio Diario (27 settembre 1967) non senza qualche sgomento: «ma che cosa significa per me e per F. questa pagina di verità e di vita che egli ha scritto attraverso una morte che ci restituise il presente, un presente continuamente rinascente? E’ la prima volta che attraverso il rigore del suo discorso filosofico, irrompe la forza della vita, rendendolo più umano e umile, più cristiano e fiducioso, più pio ed ottimista. Questo articolo mi vincola ormai come suo amico. Ne sono sgomento, perché sento muoversi in lui l’onda immensa degli affetti, il bisogno infinito del cuore». Il nostro dialogo non è finito, continua ancora.
Chiudendo il suo intervento il sen. De Rosa asseriva che l’insegnamento principale che egli aveva ricevuto dalle conversazioni con P. Fabro era che «per diventare davvero cultura la storia ha bisogno della filosofia», egli che è cultore di storia!
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Juan José Sanguineti
Ho letto molto degli scritti di Fabro e molto devo a questo filosofo, non sarei oggi qui e non sarei quello che sono se non fosse grazie all’opera di Padre Fabro, che mi ha confermato nella mia vocazione come uomo di Chiesa, come sacerdote ed in questo senso è stato anche una guida spirituale. Io sono argentino e posso dire che Fabro in Argentina è abbastanza conosciuto ed apprezzato, ivi ci sono filosofi molto vicini al suo pensiero. A Mendoza Fabro partecipò ad un importante Congresso di Filosofia.
Ho conosciuto Padre Fabro fino dagli anni settanta a Roma, quando ancora mi stavo laureando. In quegli anni avevamo incontri periodici in casa Del Noce, in cui si parlava di Filosofia e specialmente di Metafisica e del pensiero moderno. Cornelio Fabro mi ha fatto scoprire un Tommaso d’Aquino nuovo, di una profondità metafisica che prima mi era nascosta, capace di “dialogare” con i più grandi filosofi della storia, come Aristotele, Platone, Hegel e Heidegger. Il principio dell’essere partecipato e il principio della libertà sono le sue grandi intuizioni, che consentono di raccogliere nel tomismo quanto c’era di valido nell’esistenzialismo. Più recentemente ho avuto l’occasione di rivedere quanto importanti siano i suoi lavori nel campo della gnoseologia… Sono lavori che dimostrano d’altronde l’importanza del contatto tra la filosofia e le scienze. Credo che Fabro sia da annoverare tra i grandi filosofi di questo secolo e che il rinnovamento che egli ha compiuto nel campo del tomismo… sia ormai qualcosa di acquisito. La sua eredità non va persa, ma continuata e sviluppata: è la grande sfida metafisica e cristiana, capace di far fronte alla vastità del pensiero moderno senza soccombere alle sue istanze immanentistiche. Mi auguro ugualmente, in modo più concreto che Fabro sia tradotto e che siano pubblicate le sue opere complete, affinché il suo pensiero possa essere un interlocutore nel dibattito filosofico attuale e dell’avvenire. Ci sarebbero tante cose da dire, ma volevo dare la mia testimonianza su un pensatore che ritengo il più importante del nostro secolo.
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Marcelo Sánchez Sorondo
Abbiamo l’onore di poter offrire al rev.do prof. Cornelio Fabro, come omaggio per la sua lunga e intensa, vulcanica attività di studioso e docente, i frutti del nostro lavoro sulla natura della grazia, come partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino (cfr il nostro La gracia como participación de la naturaleza divina según Santo Tomás de Aquino, Salamanca 1979). In quest’opera si cerca di chiarire per la prima volta, con metodo analitico-storico e sintetico-speculativo, la novità assoluta della considerazione che S. Tommaso dedica all’originalità del soprannaturale…
Conscio dei limiti della nostra indagine sulla grazia, non solo per l’importanza dell’argomento, ma anche per fedeltà a uno stile di ricerca della verità che non nasconde le difficoltà interpretative dove ci sono, vogliamo con questa nostra collaborazione continuare col P. Fabro quel dialogo intrapreso ormai da dieci anni, quando egli accettò essere relatore principale della nostra tesi di laurea sulla natura della grazia presso la Pontificia Università di S. Tommaso d’Aquino, che fu il nucleo della pubblicazione menzionata. E’ questa allora una felice occasione per esprimere sentimenti di gratitudine e di ringraziamento al maestro ed amico che col suo insegnamento, stimolo ed esempio ha contribuito a rendere fecondi nello spirito questi anni di studio, forse tra i più felici della nostra vita…
L’originalità della nozione tomista della grazia emerge anche in forza del principio menzionato da Giovanni Paolo II, nel discorso all’Angelicum del 17 novembre del 1979: «secondo cui tutta la ricchezza di contenuto della realtà ha la sua sorgente nell’actus essendi». Infatti, non v’è dubbio che la riflessione sulla grazia più completa ed equilibrata, più speculativa ed insieme più esistenziale è quella di Tommaso d’Aquino…
Ancora e allo stesso modo, se l’appartenenza dell’esse naturae all’Esse per essentiam esige la presenza per illapsum (per essenza, potenza e presenza…) di Dio nella creatura spirituale, l’appartenenza intensiva dell’esse gratiae esige la presenza per inhabitationem di tutta la Trinità nell’anima del giusto.
Ma è alla fine dell’arco di riflessione tomista, dove l’interiorizzazione, che cerchiamo di descrivere, acquista in formule di particolare ardimento un’integrazione che sembra armonizzarsi –e nel modo migliore– con la sintesi di trascendenza ed immanenza che S. Tommaso viene realizzando. Si tratta dell’affermazione da parte dell’Angelico, secondo la quale le creature spirituali, in quanto ri-create in esse gratiae possono essere principio attivo particolare della derivazione predicamentale dell’ esse gratiae Christi.
In effetti, come nell’ordine naturale la forma raccoglie in sé la mediazione formale di tutto l’atto, sia dell’essere che dell’operare: così analogamente nell’ordine soprannaturale è la stessa forma, cioè la grazia santificante, che si costituisce in principium quo predicamentale, soprannaturale sia dell’essere che dell’operare.
Testimonianze di religiosi
P. Raniero Cantalamessa
Caro Professore, da anni le sono debitore di uno dei “grazie!” più sentiti della mia vita. Ora finalmente mi decido a farlo. Il motivo è che per merito suo ho conosciuto S. Kierkegaard ch’è diventato uno dei miei grandi maestri, insieme con Agostino, Pascal, Angela da Foligno e pochi altri.
Da quando ho lasciato l’insegnamento alla Cattolica per fare –indegnamente, certo, e con mio “rischio” direbbe il nostro amico Kierkegaard– il predicatore, è incalcolabile l’aiuto che ho ricevuto da lui, sia per comprendere la Parola di Dio (negli Scritti edificanti), sia per comprendere il destinatario di essa ch’è l’uomo moderno. Anche predicando ogni settimana, in Avvento e in Quaresima, al S. Padre (sono succeduto in questo ufficio a P. Ilarino da Milano che ella forse ha conosciuto), mi è capitato molto spesso di citare brani e pensieri di lui e di presentarlo come una specie di “profeta” moderno, che ha messo a nudo le contraddizioni sia della cultura moderna sia degli stessi che si dicono cristiani.
Leggendo le opere di Kierkegaard (Opere, Diario, Atti dell’amore) così intense e che non lasciano respiro, è facile intuire quanta fatica e quanto coraggio le siano occorsi per tradurre una tale mole di scritti, e non solo tradurle, ma seguirne criticamente lo svolgimento del pensiero, dare al lettore punti di riferimento preziosi e metterlo al corrente dell’andamento del dibattito sull’autore nella cultura contemporanea.
Non solo io, ma tutta la cultura italiana le è debitrice per questo servizio di incalcolabile valore. Se chi accoglie un profeta riceverà la stessa ricompensa del profeta, come dice Gesù (Mt 10,41), che dire di chi fa conoscere un profeta come ha fatto lei? Che Dio dunque la ricompensi del suo lavoro e ci dia di ascoltare, noi per primi, quello che egli ha voluto dire ai cristiani di oggi attraverso questa voce scomoda.
Con tanta stima e con i più fervidi auguri anche per la sua salute, la saluto fraternamente nel Signore Gesù Cristo.
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Padre Mario Colone
Ora te ne sei andato. Il tuo sforzo di ricerca è finito. Ora hai ciò che cercavi. Ora godi ciò che speravi. Ora “vedi” Colui nel quale credevi. Nelle tue dediche, caro Padre, con grande benevolenza e gentilezza fraterna, mi hai sempre definito “mio prezioso collaboratore…”; dediche che leggo e rileggo e sento che divento un po’ rosso. Per me non è stato un onere, ma un grande dono di Colui per il quale tu “indagavi”; e adesso avverto un po’ di rimorso in quanto avrei potuto e dovuto fare di più. Nel silenzio della mia stanzetta, rotto a volte da qualche uccello, notturno o mattiniero, mentre i tasti della macchina battevano sul foglio tu parlavi con me, alla mia intelligenza, al mio cuore, alla mia formazione di uomo, di religioso, di sacerdote. Lentamente i fogli si “riempivano”, ma anche il mio spirito si riempiva delle briciole del tuo spirito, dando una svolta a tutto il mio pensare, tanto che posso e devo dire che tu sei stato e sei il mio Maestro. Per cui sono io che devo ringraziare te dal profondo del mio cuore. In questi anni di “preziosa collaborazione” nuovi orizzonti intellettuali si sono aperti davanti a me; nuovi approfondimenti, di intenso e vigoroso contenuto, ispirati alla “sana dottrina”, si sono irrobustiti, allargando e garantendo la mia “meditazione” sulle cose, sulle persone, sulla storia…
Caro P. Fabro, sin da povero studente liceale il tuo nome usciva dalle mie acerbe labbra con ammirazione e devozione; e chi avrebbe immaginato che un giorno tu mi avresti definito tuo “prezioso collaboratore”? E chi avrebbe sognato di accoglierti nella mia stanzetta, di ospitarti nella rituale prima decade di settembre, di accompagnarti con una misera Fiat 500? Tutto pre-ordinato da Colui che tutto regola e si regola con noi, piegandosi sulle nostre “ferite” intellettuali, morali, spirituali. Perciò per me è stato un grande “dono” incontrarti, accoglierti, rendermi in qualche modo utile. Il tempo rubato al sonno era abbondantemente “ripagato” da ciò che di tuo diventava mio. Io non te l’ho mai confessato, ma da acuto osservatore delle cose e degli uomini tu te ne sei accorto subito: tu eri e sei il mio Maestro, maestro di un’umanità squisita, di una dottrina profonda e poderosa, di un cuore semplice e fraterno. Commoventi quelle indimenticabili telefonate: piene di calore, di fraternità, di paternità. Dall’alto della “tua” filosofia scendeva nelle profondità dello spirito umano. Grazie, Padre, di tutto e di quanto mi hai dato, insegnato, aperto. Un giorno, per la Misericordia e la Passione del Signore, parleremo intellettualmente di questi “ricordi sparsi”. Che il Signore ti abbia in gloria, servo buono e fedele!
* * *
Don Luigi Giussani
Reverendissimo e chiarissimo professore,
(...)
A poche persone devo quello che debbo a lei nella formazione di ciò che è stabile ed essenziale al mio modo di sentire. Le sono sempre grato; e lo dico spesso. (...)
Con devozione grande
Sac. Luigi Giussani
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Abelardo Lobato, O.P.
C’è in tutti noi un ricordo vivo di un pensatore originale e geniale; un grande filosofo cristiano del XX secolo che pone S. Tommaso fra i geni della storia del pensiero e da lui ricorre per dare una soluzione radicale alla tesi heideggeriana dell’“oblio dell’essere”, un’interpretazione dell’essere quella tomistica che va molto più in là di quella di Heidegger con cui dialoga a tu per tu, come pochi altri. Egli è un maestro del nostro tempo, perché in maniera originale ha penetrato il pensiero di tutti i tempi, ma è anche un uomo di Dio, un uomo di preghiera. Il discepolo di Tommaso imita il maestro per diventare il vero discepolo, il quale nel suo principium esponeva come seguire la via, la vita, per avere la verità, egli umile, intelligente, ubbidiente, orante. Come frutto di questo incontro, oggi qui nasce un’altra importante Associazione (dopo la S.I.T.A.), l’“Associazione Filosofica Internazionale Cornelio Fabro”.
* * *
Padre Giampietro De Paoli
«Il tenersi immobili sempre e in tutto, nel Bene invisibile e incommutabile, ch’è il proprio fine ultimo dell’uomo, è impresa più che umana e supera, nell’ordine naturale le forze estreme della natura» (C. Fabro, L’uomo è il rischio di Dio, Studium, Roma 1967, 487). Da questo pensiero fabriano, P. De Paoli, attingendo agli scritti spirituali ha delineato un profilo spirituale toccante del confratello, in sintonia e continuità con quanto espresso nella pagellina Ricordo, distribuita dopo la sua morte. «P. C. Fabro, religioso e sacerdote, membro della Congregazione degli Stimmatini, fondata da S. Gaspare Bertoni. Fu apostolo e missionario nella Cultura ed attraverso la cultura. Fedele interprete dello spirito bertoniano (magis sapere) abbracciò con passione e dedizione straordinaria il ministero della cultura, come servizio all’uomo ed alla Chiesa. Lo studio fu la sua vocazione, La cattedra universitaria il suo pulpito. La penna agile ed incisiva lo strumento di Evangelizzazione, come annuncio e servizio della Verità da accogliere e da fare. La ricerca, il suo itinerario ascetico-spirituale.
Ha vissuto con sofferenza apostolica il dramma della frattura tra fede e cultura, tra cultura e vita. Ha lottato perché la cultura fosse promozione e ricerca della Verità liberata da ogni asservimento ideologico.
Di una cultura, vasta ed illuminata, alimentò la sua vita di fede, spesa interamente per la Chiesa, amata e servita con dedizione filiale ed esemplare gratuità, sullo stile del suo Fondatore e Padre S. Gaspare Bertoni.
Egli, per i Confratelli tutti, per i Colleghi di Università, per gli amici semplici, rimane un punto di riferimento di sapienza, di cultura e di santità di vita.
Altre testimonianze
Biagio Cacciola
Il mio benvenuto a nome dell’Amministrazione ed anche del Sindaco, dott. Paolo Fanelli, che dovrebbe arrivare tra poco –adesso sono presenti due Assessori– a tutti quanti gli illustri studiosi che hanno voluto onorarci della loro presenza in una giornata di studi che a nostro avviso, grazie al contributo di sr. Rosa Goglia, vera anima di questa iniziativa, può introdurci in un cammino giubilare. L’attesa di questo appuntamento era grande. Un’operazione “ardita”, mai tentata a Frosinone: un incontro nazionale su uno dei pensatori cattolici più importanti del nostro secolo; così anche la provenienza dei relatori da tutto il mondo. Frosinone ha questa pretesa, a nostro avviso non modesta di poter ricomporre divisioni e fratture attraverso l’opera di un grande filosofo come Padre Cornelio Fabro, un tomista ma anche un traduttore di Kierkegaard; la traduzione del Diario credo sia una delle cose più belle che noi abbiamo avuto a livello editoriale qui in Italia. Il pensatore friulano, con uno sforzo enorme ed illuminato non ha rinunciato alla pretesa di un Cristianesimo che sfidi la modernità: l’attualizzazione di S.Tommaso, fondatore del pensiero cattolico tuttora vigente all’interno della Chiesa e la divulgazione di Kierkegaard sono le pietre miliari di questa pretesa riuscita per il recupero della tradizione. Ecco perché da parte nostra c’è questo desiderio di celebrare Padre Fabro, indipendentemente dal fatto che Frosinone sia lontana dalla sua terra natìa, il Friuli, ma vicina ad una forma di solidarietà, anche intellettuale, oltre che affettiva, come ha sottolineato sr. Rosa Goglia. Credo che questo Convegno lo dimostri ampiamente, anche per l’alta qualità dei partecipanti, dei relatori con la presenza del più grande scrittore contemporaneo Eugenio Corti, “Il Manzoni dei nostri giorni”, e soprattutto del Presidente prof. Gabriele De Rosa, al quale cedo la parola, augurando buon lavoro a tutti.
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Eugenio Corti
Penso di interpretare il desiderio dei presenti se narro il mio primo incontro col grande filosofo. Conobbi P. Fabro, attraverso il mio amico avvocato Mario Bellini, che fu per molti anni presidente dell’Ordine degli Avvocati di Perugia, e divenne poi componente del Consiglio Nazionale Forense in Roma. Egli leggendo un’opera di Padre Fabro, ne rimase entusiasmato al punto che ne volle parlare in un’apposita conferenza; fu l’iniziò di un rapporto di amicizia tra lui e il padre, che spesso andava a fargli visita nel suo studio a Perugia. In seguito a ciò, Mario Bellini mi comunicò di aver conosciuto una delle figure più eccezionali della cultura in Italia. Mi disse anche di avergli regalato un suo libro (L’Aurora a occidente. Una testimonianza diretta sulla tragica lotta dei soldati dell’ARMIR, Bompiani 1984) sulla ritirata in Russia: un diario drammaticissimo. Insieme a Mario (oggi scomparso, se no sarebbe certamente qui) a quella ritirata avevo partecipato anch’io nello stesso reggimento: s’era trattato di una vicenda atroce, avevamo letteralmente sperimentato l’inferno in terra...
Certe sere, quando si formava un po’ di tregua, io facevo recitare il Rosario con le litanie mariane ai soldati e agli ufficiali che stavano con me, tra cui Mario; il quale poi ne riferì nel suo Diario. Quel piccolo fatto impressionò molto P. Fabro, tanto che prese a parlarne nelle sue omelìe domenicali e spesso nelle sue conversazioni.
Fu a causa di quei Rosari che volle conoscermi.
Quell’uomo profondissimo era particolarmente sensibile al problema del male e del dolore, soprattutto quello degli innocenti e dei bambini, come si può leggere anche nelle lettere a me indirizzate. Gli regalai la mia opera maggiore Il cavallo rosso, pregandolo di scrivermi una presentazione che fu poi pubblicata dalla Rivista Renovatio (1991) di Genova. Spesso sono andato a trovarlo a Roma, molto abbiamo parlato; gli ho sempre inviato ogni mio lavoro ed altrettanto faceva lui con me. S’è formata un’amicizia profonda che ci ha arricchito molto e reciprocamente gratificati.
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Maria Luisa Costantopulos
Il mio ricordo di Padre Fabro è solo un brevissimo flash, un punto esclamativo dovuto alla semplicità ed umanità di un religioso, vero militante della Chiesa. Ho avuto il privilegio di conoscerlo, grazie a Suor Rosa Goglia, la quale telefonandomi a casa nel sabato santo del 1995, chiese se mio marito ed io fossimo stati disposti a trascorrere la domenica di Pasqua nella Clinica dove era ricoverato Padre Fabro. Lì per lì rimanemmo perplessi, ma poi, per un istintivo moto di solidarietà fraterna, accettammo; quella è rimasta, per noi, una Pasqua indimenticabile! Della stessa opinione fu anche la cara amica Caterina De Sanctis, la quale dirà con convinzione: «E’ stata la Pasqua più bella della mia vita. Ho conosciuto un santo ed ho provato una pace interiore di una profondità indimenticabile!».
Mi colpì come prima impressione, la compostezza fisica, malgrado il grave male e il pallore che già imbiancava il suo volto in maniera preoccupante. Ciò che rimaneva vibrante era lo sguardo, dolce ed austero contemporaneamente, senz’altro profondo benché velato, a tratti dalla stanchezza e dai medicinali; sembrava quasi che quello sguardo scavasse nell’animo... Su invito di Suor Rosa, incominciò a narrare di alcuni episodi della sua vita, mentre noi attenti ascoltavamo senza stancarsi, perché ciò che egli diceva era così toccante e vero da suscitare turbamento. Alla nostra ammirazione, poi, per la vastità della sua cultura ci sorprese la sua ironica risposta: «E che ho fatto? sono più ignorante di prima!». Egli parlò anche delle gravi malattie avute da piccolo, mostrandoci la vasta cicatrice dietro l’orecchio; parlò pure della sua scelta e fedeltà al Sacerdozio; ci narrò ancora della sua lotta interiore contro il Maligno, di cui aveva più volte, drammaticamente percepito la presenza e subita l’aggressione; parlò però, anche, della consapevolezza della protezione angelica accanto a sé. Ecco che, qualche giorno più tardi, quando egli era già tornato a casa, gli Angeli tornano ad essere protagonisti di questo mio secondo incontro, avvenuto il 25 aprile. Padre Fabro, che ormai già si trovava sul letto di morte, stringendomi la mano esclamò, rivelando ancora una nota vibrante della sua voce: «Gesù le vuole bene!». Gli avevo poste domande precise sugli Angeli, gli avevo chiesto di chiarire dei dubbi e di darmi dei consigli circa la mia anima. Mi regalò uno spiraglio di Paradiso nell’estremo fremito di quella sua vita che s’intuiva dalla dolcezza del volto, dal candore dei capelli bianchi, trascorsa nel colloquio intimo con la Divinità. Un vecchio ben vissuto, l’avrebbe definito Dante, una vecchiaia la sua ricca di pensieri santi che hanno irradiato luce, fino all’ultimo, rischiarando tante menti e tante coscienze con quell’unica e vera saggezza ch’è l’umiltà della creatura per il suo Dio. Sento, quindi, dal profondo del cuore, nel ricordo di quel calore umano che allora mi dette coraggio e che ora m’infonde speranza, il bisogno di dirgli: «Grazie!». Il tramonto della sua vita ha dato inizio all’alba di un impegno laico, reso oggi senz’altro più coraggioso e determinato nella difesa di Cristo.
* * *
Francesco Mercadante
Non sono venuto per parlare, ma per ascoltare e sono felice di ciò che finora ho appreso. Non ho avuto un rapporto fitto con P. Fabro, ma sufficiente perché egli mi abbia lasciato una memoria di sé che mi è cara.
Naturalmente tra lui e me c’era di mezzo Rosmini. Io ebbi L’enigma Rosmini in mano quando non era ancora stampato; mi adoperai perché fosse edito a cura degli stessi rosminiani, i quali mi guardarono come se avessi proposto uno sbarco sulla luna fatto con le ali di Icaro. I filosofi hanno anche il loro realismo, non tomistico necessariamente. E con tutto ciò il rapporto è eccellente, perché P. Fabro è un filosofo, che non era soltanto un filosofo, come diceva l’amico Gabriele De Rosa, che con Fabro fece un viaggio a Pompei, le cui impressioni furono dal nostro filosofo riportate in uno scritto pubblicato in un fascicolo della Fiera Letteraria da me letto con somma meraviglia, tanto che mi sono detto: «se quest’uomo di questi scritti ne ha 10, la storia della Letteratura Italiana Contemporanea deve prenderne atto; egli è certamente un grande scrittore»; la descrizione dell’emozione provata da P. Fabro alla vista delle rovine di Pompei è resa con un’efficacia straordinaria che non è quella del diario o della confidenza. Ma P. Fabro non è solo filosofo e scrittore, ma posso affermare che è anche un mistico, avendo io ascoltato le sue prediche e scoperto la sua profonda devozione a S. Gemma, alla quale ha dedicato una poderosa monografia. Allora P. Fabro ha un suo ritorno in me davvero eccezionale, perché era anche un mistico.
Attualmente per i tomisti e per gli esistenzialisti «mala tempora currunt»; se dipendesse dal Papa questi cattivi tempi non verrebbero mai. Io mi occupo di Filosofia del Diritto, e sono molto attaccato alla categoria di coloro che fanno muro e diga contro la secolarizzazione, contro la cultura della resa; l’abbiamo fatta in pochi, io l’ho fatta accanto a Del Noce, come tutti sanno, e leggendo tra la sua corrispondenza ho visto che c’era quella di Fabro. Quando Del Noce interrompe l’insegnamento per andare al Senato, e me ne fece cenno in privato, lo scrive a Fabro con un complesso d’inferiorità, diciamolo che non aveva verso nessuno e questo mi rese più attento alla continuità tra questi pensatori che se non sono loro quelli che rappresentano la cattolicità pensante italiana di questo secolo, quali saranno mai con la sola eccezione di Capograssi?
Studi e voci di enciclopedie su Cornelio Fabro
a. Volumi
- Carmelo Nigro, Profilo filosofico del P. Cornelio Fabro, in Cathedra Sancti Thomae II, 1969; P.U.L., Roma 1969, 450.
- Andrea Dalledonne, Cenni sul pensiero e sull’opera di P. Cornelio Fabro, 1977, 48.
- Aa.Vv., Essere e libertà, fs. Cornelio Fabro, Maggioli, Rimini 1984, a c. Università di Perugia, 588.
- Danilo Castellano, La libertà soggettiva. Cornelio Fabro oltremoderno e antimoderno, Scientifiche italiane, Napoli 1984, 188.
- Mario Pangallo, L’essere come atto nel tomismo essenziale di Cornelio Fabro,ed Libreria Editrice Vaticana, Roma 1987, 168.
- Mario Pangallo, La dottrina tomistica della causalità nell’interpretazione di Cornelio Fabro, Roma 1990, 102.
- J. Raul Mendez, Las Tesis de Cornelio Fabro, P.U.L. 1990.
- Aa.Vv., Veritatem in caritate, fs. Cornelio Fabro in occasione dell’LXXX genetliaco, a c. di G.M. Pizzuti, Ermes, Potenza 1991, 278.
- Luis Romera Oñate, El primado noético del “ens” como “primun cognitum”. Analisis de la posición de Cornelio Fabro, Universidad de Navarra 1991, 324.
- Luis Romera Oñate, Pensar el ser. Analisis del conocimiento del “Actus essendi” según C. Fabro, Editions Scientifiques Européennes, Berna 1994, 352.
- Christian Ferraro, «Cornelio Fabro, ¿volontarista?», Diálogo 11 (1995) 9-40, Ediciones del Verbo Encarnado, Argentina.
- Elvio Fontana, «Cornelio Fabro. In Memoriam», Diálogo 12 (1995) 11-79, Ediciones del Verbo Encarnado, Argentina.
- Aa.Vv., Cornelio Fabro, Ricordi e Testimonianze, raccolte da G. M. Pizzuti, Ermes Potenza 1996, 88.
- Aa.Vv., Per Cornelio Fabro, La Nuova Base Editrice, Udine 1999, 120.
- Rosa Goglia, Cornelio Fabro – Filosofo della libertà, Biblioteca di Filosofia oggi VIII, Genova 2000, 1-54.
- Aa.Vv., Il Singolo (Biblioteca Kierkegaardiana di Filosofia), promossa dal Centro Italiano di Studi Kierkegaardiani diretta da Giuseppe Mario Pizzuti, vol. 1, Lamisco, Potenza 2000, 280.
- Andrea Dalledonne, «Cornelio Fabro, Essere e libertà come fondamenti del tomismo essenziale», (Filosofi Italiani del Novecento, collana diretta da Antimo Negri), Seam, Formello Roma 2001, 270.
- Rosa Goglia, «La “Humanitas” in Cornelo Fabro – Empatia e Teoreticità», in Metafisica e Azione – Nuovi approcci al tomismo; Divus Thomas 29 (2001) Anno 104°, ESD, 168-178.
- Dario Composta, Contre l’aventurisme théologique – Le père Cornelio Fabro, in Catholica, Été Paris 2001, 77-83.
- Dichiarazione del Centro di Pensiero della “Collezione del Vagabondaggio contemplativo” (art. 3 n. 3 dello Statuto) sull’opera postuma di Cornelio Fabro Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, in La Via, periodico di filosofia e cultura cattolica, VI 3, 24.07.2001.
b. Voci di enciclopedie
- Luigi Bogliolo, «Fabro, Cornelio», in Enciclopedia Filosofica, Sansoni, Firenze 19682, vol. II, coll.1190.
- Andrea Dalledonne, «Fabro, Cornelio», in Gran Enciclopedia Rialp, t. 25, Madrid 1987, 721-725.
- Antonio Pieretti, «Fabro, Cornelio», in Christliche Philosophie, Band 2, Rüchgriff, Verlag Styria 1988, 730-738
- Danilo Castellano, «Fabro, Cornelio», in Enciclopedia Verbo, Luso-Brasileira de Cultura, Ediçao Século XXI, II, Editorial Verbo, Lisboa Sao Paulo 1999, 674-675
- Christian Ferraro, «Fabro, Cornelio», in Thomisten-Lexikon, Nova et Vetera, Bonn 2006, pp. 160-170.
c. Convegni e tornate scientifico-filosofiche
- La filosofia dell’essere, fs. Cornelio Fabro nel suo 80°. Università San Tommaso d’Aquino - Facoltà di Filosofia, relatori: prof. P. Abelardo Lobato, O.P. (Decano della Facoltà di Filosofia, Angelicum) Il dialogo di Tommaso D’Aquino con Platone e Aristotele alla ricerca dell’essere; prof. Mons. Marcelo Sánchez Sorondo (Decano della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense) L’itinerario filosofico del prof. C. Fabro, e il suo contributo alla filosofia tomista contemporanea; prof. C. Fabro San Tommaso, maestro della filosofia dell’essere, Roma 30 aprile 1981.
- Ricordo di Cornelio Fabro, relatore prof. Danilo Castellano (Università di Udine), Fanna-Pordenone, 22 agosto 1995.
- Il rischio della libertà nell’opera di Cornelio Fabro, relatori: prof. Mons. Marcelo Sánchez Sorondo (P.U.L.); prof. Andrea Dalledonne (Università Perugia); prof. Anna Giannatiempo (Università Perugia); presiede prof. Eduardo Mirri (Università Perugia); introduce prof. Antonio Pieretti (Università Perugia), Perugia Sala delle Lauree, Facoltà di Magistero, 6 dicembre 1995.
- Commemorazione di Cornelio Fabro, relatore prof. Antonio Poppi (Università di Padova), Talmassons-Udine, 16 dicembre 1995.
- L’essere e le sue interpretazioni – in onore di Cornelio Fabro, Colloquio Internazionale, Pontificia Università Lateranense, Facoltà di Filosofia; relaziona su C. Fabro Mons. Marcelo Sánchez Sorondo (P.U.L.) sul tema Essere e libertà in Cornelio Fabro, Roma, 8-10 gennaio 1996.
- Cornelio Fabro-pensatore universale, (ad un anno dalla sua scomparsa) con il patrocinio del Comune di Frosinone; relatori prof. Danilo Castellano, Oltre totalitarismo e nihilismo – La filosofia di Cornelio Fabro; prof. Dario Composta, La libertà in Cornelio Fabro (Pont. Università Urbaniana); dott. Eugenio Corti, Ricordi degli incontri e della collaborazione culturale con C. Fabro (Besana Brianza) scrittore; prof. Andrea Dalle donne, L’esse ut actus nel tomismo essenziale di C. Fabro; dott. Italo Di Monte, medico personale di Fabro (Roma) Profilo umano del filosofo Cornelio Fabro; prof. Marcelo Sánchez (P.U.L.) Per una nuova prospettiva teologica: partecipazione e ‘refusione’ della grazia; saluto dell’Assessore alla Cultura prof. Biagio Cacciola; apertura del convegno a c. del senatore prof. Gabriele De Rosa; coordinamento dei lavori Suor Rosa Goglia, Frosinone, 5 maggio 1996.
- Padre Cornelio Fabro, protagonista del tomismo del nostro tempo, prof. Mario Pangallo (Università Gregoriana), Roma, Palazzo della Cancelleria, (inaugurazione dell’anno accademico), Accademia Romana di S.Tommaso d’Aquino, 21 novembre 1996.
- Cornelio Fabro – testimone di verità, saluto prof. P. Giampiero De Paoli (Vicario Generale degli Stimmatini); apertura del convegno prof. Mons. Marcelo Sánchez Sorondo (P.U.L.); S.E.R. P. Georges Cottier, O.P. (Teologo della Casa Pontificia) Fonti dell’ateismo moderno; prof. Giuseppe M. Pizzuti (Università Potenza) Il ruolo di Kierkegaard nella biografia intellettuale di Cornelio Fabro (relazione scritta, inviata); prof. Antonio Pieretti (Università Perugia) Il filosofo e la preghiera; P. Nello Dalle Vedove c.s.s. P. Fabro maestro e amico; dott. Cesare Cavalleri (Direttore Edizioni Ares) Presentazione della seconda edizione, ampliata, del volume Introduzione a San Tommaso di C. Fabro, pubblicazione preparata in occasione del convegno; prof. Mons. Lluis Clavell (Rettore Magnifico del Pontificio Ateneo della Santa Croce) presentazione della bozza di Statuto della Costituenda “Società Filosofica Internazionale Cornelio Fabro”; Tavola Rotonda con i relatori, moderatore Mons. Clavell, Roma, Villa Flaminia, 4 maggio 1997.
- Cornelio Fabro - l’attualità di S.Tommaso e l’interpretazione del pensiero moderno, prof. Antonio Pieretti, Essere e partecipazione; Marcelo Sánchez Sorondo, La filosofia della libertà; prof. Virgilio Melchiorre (Università Cattolica Milano) Kierkegaard e i percorsi della modernità; prof. Armando Rigobello (Università Tor Vergata) Cornelio Fabro nel contesto della filosofia italiana; presentazione dei lavori prof. Giuseppe Dalla Torre (rettore Lumsa), introduzione prof. Onorato Grassi (Lumsa), Roma, L.U.M.S.A., 12 marzo 1998.
- Le radici dell’ateismo moderno nella riflessione di Cornelio Fabro, prof. Sergio D’Ippolito (I.P.E. Napoli), Napoli, Istituto Filosofico S.Tommaso d’Aquino, 31 marzo 1998 e 7 aprile 1998.
- Fenomenologia Percezione Pensiero in Cornelio Fabro, prof. P. Juan Josè Sanguineti (Pont. Università Santa Croce Roma), Frosinone, Istituto “Beata Maria De Mattias”, 17 gennaio 1999
- Mistica e sfida filosofica in C. Fabro, presentazione della prima opera postuma Breviario d’amore – antologia dagli scritti di S. Gemma Galgani, Frosinone, Istituto Beata Maria De Mattias, 21 marzo 1999.
- Per Cornelio Fabro, presentazione dell’omonimo volume, relatori proff. Gabriele De Anna, Giorgio Giacometti, Giancarlo Giurovich, Marco Tardone, introduzione di Vittorio Zanon (responsabile editoriale), presentazione prof. Danilo Castellano, Talmassons, Sala Civica, 6 maggio 1999.
- Le radici dell’ateismo moderno nella riflessione di Cornelio Fabro, prof. Sergio D’Ippolito, Napoli, Istituto Filosofico S.Tommaso d’Aquino, 30 marzo 2000 e 6 aprile 2000.
- Cornelio Fabro: dall’uomo a Dio, Preside prof. Lino Di Stefano (Frosinone); presenta Suor Rosa Goglia, Trevi nel Lazio (Frosinone), 4 giugno 2000.
- Esistenza e libertà, Tavola Rotonda – Presentazione dell’inedito Il libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, indirizzo di saluto ed apertura dei lavori a c. di Suor Rosa Goglia; relatori prof. Andrea Dalledonne; prof. Mons. Marcelo Sánchez Sorondo (Cancelliere Pont. Accademia delle Scienze); prof. Don Gaetano Saccà (Magnifico Rettore “The Yorker International University); prof. Mons. Lluis Clavell (Magnifico Rettore Pont. Università della Santa Croce); conclusione prof. Francesco Mercadante (Università La Sapienza), Frosinone 19 novembre 2000.
- Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, Presentazione, proff. Leonardo Casini (Università di Roma Tre), Anna Giannatiempo, Emmanuele Morandi (Università Bologna), Luis Romera (Pont. Università della Santa Croce), dott. Alberto Gambardella (Bibliotecario della Pont. Università della Santa Croce), presiede il Vescovo prof. Marcelo Sánchez Sorondo (Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali), Roma Pontificia Università della Santa Croce – Facoltà di Filosofia, 27 marzo 2001.
- L’attualità del pensiero di Cornelio Fabro – Seminario di Studi, prof. P. Jesus Villagrasa, L.C. (Ateneo Pontificio Regina Apostolorum) La Resolutio come Metodo della Metafisica, Mons. Marcelo Sánchez Sorondo, Dall’essere alla libertà e dalla libertà all’essere, presentazione prof. Guido Traversa (A.P.R.A. e Univ. Roma Tre), Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma, 4 aprile 2001.
- Le radici dell’ateismo moderno nella riflessione di Cornelio Fabro, Napoli, Istituto Filosofico S. Tommaso d’Aquino, 10 e 17 maggio 2001.